Chi dice donna dice danno. Donna al volante pericolo costante. Sei brava per essere una donna. Non fare la femminuccia. 

Quanto pesano gli stereotipi di genere sulla vita di una persona? Sappiamo riconoscerli? E quanto sono radicati in noi e nella società? Se lo chiede Laura Pozone, autrice e attrice, che porta a teatro Gesto politico. Quattro risate sugli stereotipi di genere. Il monologo è andato in scena alla camera del lavoro di Imola lo scorso 13 marzo, con il contributo della Cgil e dello Spi. 
Un viaggio tra giochi e giocattoli ben differenziati tra maschi e femmine, crisi adolescenziali, gender gap sui luoghi di lavoro, linguaggio. Da Elena Gianini Belotti a Cioè, da Michela Murgia, Vera Gheno, Lidia Ravera fino alla sua farmacista, Laura Pozone gioca con il pubblico, tra episodi personali ed esperienze collettive. 

Laura Pozone, partiamo dal titolo: gli stereotipi di genere sono ancora una triste realtà con cui ci confrontiamo quotidianamente.

Sì, purtroppo, ed ecco perché ho deciso di occuparmene. Mi interessano da sempre le tematiche relative alla questione di genere. L’estate scorsa mi avevano invitata a un festival ed è stata per me l’occasione per mettere nero su bianco un ragionamento sugli stereotipi che si insidiano anche nei nostri più piccolo gesti quotidiani.

A proposito di gesto, e di Gesto politico, per citare sempre il titolo dello spettacolo, che riflessione ha fatto, da attrice, sul valore dei gesti e su come questi riproducano, a volte anche inconsapevolmente, delle dinamiche patriarcali?

Sicuramente ognuna di noi ha introiettato dei modelli che non sono vecchi di due giorni, ma di secoli. Una mentalità che ha sempre ruotato intorno all’uomo e fondata su una cultura patriarcale, in una società costruita a misura di uomini. Si sentono anche donne che preferiscono essere chiamate “sindaco”, “dottore”, come se il potere e il prestigio fossero caratteristiche maschili. Secondo me è il frutto della convinzione, sbagliata a mio avviso, che se ci facciamo definire al femminile perdiamo di potenza, di credibilità. Finiamo per convincerci che per farci spazio in una società androcentrica dobbiamo continuare a definirci al maschile, o avere un atteggiamento di prevaricazione. Per me il gesto politico è il gesto quotidiano, anche andare a fare la spesa lo è, come sappiamo bene. Sono le piccole cose che cerco di portare sul palco, in maniera divertente, giocando con il pubblico, improvvisando, raccontando episodi autobiografici.

Roberto Longoni

Come si sviluppa lo spettacolo da un punto di vista drammaturgico?

Ho scritto uno spettacolo a metà fra il recital, l'improvvisazione e l’interazione con il pubblico, in cui ripercorro le tappe della vita di una donna: l'infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e la terza età. Mi interessava mettere in evidenza come, a partire dallo stesso background patriarcale, le donne siano vittime di stereotipi che si perpetrano nel tempo, pur prendendo forme diverse a seconda dell’età. Dalla frase “auguri e figli maschi”, ai colori rosa e celeste, ai giochi: quelli per bambini diretti a stimolare l’ingegno, quelli per le bambine a stimolare la vanità o la cura. Sono predisposizioni che poi ci portiamo dietro per tutta la vita e che ci portano a confrontarci con una serie di canoni (di bellezza, per esempio) a cui subordiniamo la nostra accettazione. Quando entri nel mondo del lavoro ti viene ancora chiesto di scegliere tra la carriera e la maternità. Ricordo che una delle prime cose che ci dissero, quando iniziai la scuola di teatro, fu proprio “dovete scegliere se sarete delle madri o delle attrici”. Per non parlare della libertà di invecchiare: se sei uomo i capelli bianchi vogliono dire fascino; se sei donna indicano sciatteria.

Ci sono degli argomenti che oggi, nonostante si possa dire tutto, restano tabu?

La menopausa, per esempio, perché segna la fine del periodo in cui si è fertili, e dunque adatte a procreare.

Lei ha già affrontato in qualche modo questi temi, prima nello spettacolo Love is in the air e poi nel monologo Dita di dama, tratto dall’omonimo romanzo di Chiara Ingrao, ambientato negli anni sessanta e settanta. Cosa è cambiato oggi, se qualcosa è cambiato?

Mi sembra che ci sia più consapevolezza, ma alcune dinamiche sono ancora tanto radicate. Love is in the air era il mio primissimo monologo, nel 2013, ed era volutamente la sagra dello stereotipo, del cliché appiccicato addosso a questi sei personaggi che poi piano piano, con un meccanismo drammaturgico, si sgretolavano per dimostrare che le persone bisognerebbe conoscerle, prima di giudicarle e appiccicare delle etichette. Negli ultimi tempi qualcuno (il ministro Valditara) ci ha spiegato che il patriarcato, semmai fosse esistito, è comunque finito nel 1975. Questo ci fa capire quanto ancora bisogna parlare di queste cose, perché siamo ancora fermi lì.

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