Iniziamo prendendo come riferimento la Costituzione italiana, esercizio sempre salutare, che dovremmo svolgere più spesso. L’articolo 37 recita così: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. Basterebbe soltanto questo primo comma per accogliere i contenuti del libro di Rita Querzè, giornalista delle pagine economiche del Corriere della Sera, autrice di Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse (Post Editori, pp. 208, euro 22), nella prefazione di Maurizio Ferrera indicata come “una delle poche voci capaci di illustrare e spiegare le tante contraddizioni del mercato del lavoro e in particolare lo scottante problema del lavoro femminile”.
Nel volume vengono presi in considerazione in particolare gli ultimi trent’anni di storia italiana, e nella sua introduzione è la stessa Querzè a scrivere che “il punto può essere uno soltanto: analizzare quello che è successo nell’ultimo trentennio, definire in modo il più possibile obiettivo a che punto siamo e individuare se possibile una prospettiva”. Cosa è successo allora in questo arco di tempo?
Per vari motivi possiamo affermare che la staticità, la cristallizzazione di una situazione già in ritardo rispetto a molti Paesi di quell’Europa che proprio in quegli anni andava economicamente unificandosi, ne è stata la cifra caratteristica; osservazione alla quale si può aggiungere un altro dato a dir poco inquietante se volto all’indietro, al decennio Settanta, periodo in cui le conquiste del lavoro, a partire dallo Statuto del 1970, congiunte alle battaglie femminili e femministe, avevano regalato una stagione di diritti e dignità a uomini e donne che oggi, a mezzo secolo di distanza, sembrano nuovamente messi in discussione, se non nuovamente perduti.
Nei sei capitoli in cui è suddiviso il libro scopriamo così che se vogliamo fare più figli, come il mantra di questo governo ripete meccanicamente, soprattutto quando si avvicina qualche appuntamento elettorale, le famiglie hanno bisogno di un doppio stipendio, realizzabile offrendo alle donne l’opportunità di realizzarsi professionalmente, senza dover per questo essere costrette a rinunciare al proprio ruolo familiare, in particolare materno. Per cercare di ottenere miglioramenti in questa direzione, secondo Querzè bisogna intervenire su due fronti: quello istituzionale, attraverso riforme ad hoc, e quello sociale, che tradotto vuol dire fare la propria parte per modificare una mentalità in Italia ancora maggioritaria, ancora spiccatamente “maschiocentrica”. Ecco perché l’idea di una rivoluzione culturale dal basso non può fare a meno anche della partecipazione degli uomini, in un percorso comune.
Nel concreto, tra le varie proposte presentate nella seconda parte del volume si richiamano la possibilità di mettere a disposizione un maggior numero di congedi di paternità, ma anche agevolazioni per chi assume personale domestico in regola, perché “se anche la condivisione fosse perfetta, non basterebbe”. Il capitolo cinque, dedicato alle “precarie e flessibili”, destinate a lavori di terza serie o a “parte time involontario”, si apre con la storia umana e professionale di Chiara, una tra le tante che danno voce a queste pagine, signora ferrarese di 56 anni che dopo trent’anni di contratti precari e due lauree in Biologia e Scienze naturali, (entrambe con 110 e lode), solo ora è finalmente entrata di ruolo come maestra elementare. Più difficile, seppur possibile, che una situazione simile capiti a un uomo; difficile anche, in questi trent’anni, riuscire a programmare una vita e una famiglia.
E se nel settore privato le donne guadagnano in media il 16,5% in meno di un uomo, distorsione che potrebbe essere corretta attraverso un potenziamento della certificazione di genere sul modello inglese, nelle sue conclusioni l’autrice raccoglie le teorie esposte sin qui:
La vera sfida è cambiare il welfare pubblico e, insieme, il modello della produzione post-fordista. Una doppia rivoluzione di questa portata ha qualche chanche solo se si esce dal paradigma di genere. Il patriarcato non si supera con il matriarcato, ma con un modello centrato sull’equità. È naturale che siano le donne a proporre questo cambiamento. Perché si affermi, però, a sostenerlo devono essere anche tanti uomini.
A ben pensarci, il solo primo comma dell’articolo 37 della Costituzione indicava già la via.