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Si può fare una scuola diversa, dove l’arte, la danza, e altre varie forme di linguaggi divengano strumenti didattici primari per un’educazione interculturale? Si possono pensare nuovi luoghi di incontro, laboratori multidisciplinari, intercambiabilità dei docenti? E soprattutto, è possibile proporre tutto questo alla variegata realtà migrante che arriva in Italia, per tentare di costruire un percorso concreto di inclusione, partendo proprio dallo scambio linguistico, più in genere culturale? Abbiamo rivolto queste e altre domande a Fernando Battista, curatore del volume Pedagogia del confine (Edizioni Junior, p. 244, euro 23), che raccoglie e racconta un’esperienza davvero unica, attraverso le voci di esperti in materia, e dei partecipanti al progetto.
Come possiamo definire quanto raccolto in questo volume?
Per me in questo momento storico la questione migranti va insieme a quella dell’educazione, e su entrambi i fronti questo governo propone soluzioni a volte poco condivisibili, perché tendono a definire delle tematiche che non vanno a risolvere il problema ma ad evitarlo, invece di creare una situazione inclusiva dove queste persone possano diventare anche utili. Questo libro propone una possibilità di poter creare all’interno della scuola un sistema educativo, una dimensione che si ponga come narrazione diretta, piuttosto che mediata o dominante, per descrivere queste persone senza allocarle in una categoria clandestina. Noi cerchiamo di capire perché sono qui, quale sia stata la loro scelta. Questo progetto, rispetto allo scetticismo e al rifiuto, apre a possibili contesti educativi.
Il linguaggio del corpo viene messo al centro della vostra attività. Come mai questa scelta?
Perché il corpo è un elemento di confine ma anche di congiunzione tra popolazioni, che in particolare per i nostri adolescenti è anche strumento scivoloso, di cambiamento. Lo stesso per i migranti, a cui appartiene un corpo martoriato, sofferente, spesso torturato. Noi partiamo da lì, da un territorio difficile per entrambi, ma che diventa uno spazio nostro, nel tentativo di utilizzare un linguaggio dove nessuno è padrone, ma nel quale possiamo incontrarci per creare qualcosa di nuovo, di speciale.
E la danza?
La danza, nella sua natura antropologica, appartiene all’intera collettività. Nella tradizione in particolare africana è con la danza che la tribù si ritrova nel rito, e nel ritmo, nel suono delle voci, come un solo battito cardiaco riprodotto dal djembè; un elemento originario che segna il tempo, che diviene di appartenenza all’interno del gruppo. Si forma così un linguaggio comune a tutti, che a sua volta decreta la nascita di un gruppo nuovo.
Il vostro lavoro però è anche sul linguaggio, sulla comunicazione attraverso le parole.
La parola arriva dopo, ma arriva, in un contesto dove però si cerca di trasformare anche gli spazi, come direbbe anche Morin. Penso alle nostre scuole, dove i banchi sono sistemati perpetui, in una doppia linea, senza che nulla cambi. Noi trasformiamo gli spazi della scuola, li cambiamo, e così le parole arrivano, anche attraverso un’azione teatrale. Questo dovrebbe essere patrimonio anche di studenti e studentesse italiane, attraverso uno scambio preciso, una comunicazione più ampia. E così assistiamo al miracolo, che miracolo non è; le lingue sono diverse, ma i nostri studenti e i ragazzi arrivati da un altro mondo comunicano lo stesso.
Come è stato accolto questo libro?
A dir la verità stiamo facendo un po’ di fatica nel promuoverlo, anche se raccoglie e coglie temi importanti, grazie al supporto di analisi, questionari, di studi di università americane. Una diversa direzione di lavoro rispetto a una diversa visione educativa, del mondo della scuola. Lo studio del vissuto di questi ragazzi, ovunque ghettizzati, è divenuto un progetto che ha dato occasione di incontro tra persone, e ha cambiato la vita di molti, anche di ragazzi italiani.
Possiamo fare qualche esempio?
Beh, nel diario di bordo che faceva parte del nostro lavoro mi ha colpito molto quanto scritto da Aurora, che diceva di aver capito, dopo aver provato questa esperienza laboratoriale nell’istituto tecnico turistico Livia Bottardi di Roma, di “non poter lasciare le cose così come stanno, devo fare qualcosa per questo Paese”. Così Aurora si è iscritta alla facoltà di Giurisprudenza, e si è laureata, per lavorare sui diritti delle persone che ha incontrato in quel laboratorio. Altri invece so che spesso si recano alla tavola calda di Via Giolitti, vicino alla Stazione Termini, per dare una mano, per dar da mangiare a chi è arrivato in Italia da poco, tirandosi dietro anche qualche critica da parte dei loro coetanei.
Il progetto andrà avanti?
I risultati ottenuti da questo laboratorio sono stati del tutto incoraggianti, mi sono preso l’impegno di proseguirlo, cercando anche di fare formazione a docenti ed educatori, all’interno di contesti non solo specifici ma nella stessa scuola pubblica, perché possa divenire una risorsa comune. Il benessere, lo stare bene insieme, in una scuola è fondamentale per una relazione efficace, per una direzione socio-emotiva, per avere una visione diversa dell’istruzione, necessaria per un capitale umano che non vada soltanto a lavorare nelle aziende, ma che prima formi delle persone, cittadini del mondo, con la consapevolezza di una anima solidale.
C’è una definizione che possa racchiudere quanto state facendo?
Per me una parola chiave è “relazione”. Come scritto anche da Carlo Rovelli, la vita nasce da una relazione, e dunque dobbiamo riscoprire lo scambio, il confronto, la crescita, attraverso un pensiero divergente che apra delle porte.