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Bonaparte ha sempre affascinato il cinema, fin dalle origini. Non deve stupire: dalla morte di Napoleone alla prima proiezione pubblica dei Lumière nel 1895 sono passati "appena" 74 anni, dunque il ricordo è ancora fresco, solo leggermente storicizzato. Così l'imperatore è già presente nei cortometraggi degli anni Dieci, come in Napoléon di Louis Feuillade (1912), ovviamente francese, che sarà il padre di Fantomas, e nel decennio successivo in Madame Sans-Gêne di Léonce Perret (1925). Tratto da un noto testo teatrale dell'epoca, è la storia di una lavandaia come tra i suoi clienti incontra un giovane tenente proveniente dalla Corsica, tale Napoleone. L'umile lavoratrice è Gloria Swanson, ancora muta prima di passare al sonoro - e venire da esso divorata - come Norma Desmond in Viale del tramonto. Comunque da subito il cinematografo ha una tentazione: di drammatizzare Napoleone, letteralmente renderlo dramma, per esempio immaginando la sua giovinezza, ipotizzando gli amori, usando le guerre come elemento drammaturgico in grado di indirizzare l'intreccio.
Il primo capolavoro è Napoléon di Abel Gance (1927). Film-monstre nell'era della pellicola, quando la lunghezza si pagava, con una prima versione di 333 minuti ridotta poi a 235, proiettato per la prima volta in 35 mm all'Opéra di Parigi musicato da Arthur Honegger. Ricostruito in ben 21 versioni, l'ultima del British Film Institute per la durata di 5 ore e 33 minuti. Colosso del cinema muto francese, la folle impresa dell'avanguardista Abel Gance racconta la prima parte della vita di Napoleone: dal 1781 mentre frequenta il collegio militare fino al 1796, quando diventa generale dell'esercito. Il Bonaparte adulto è incarnato da Albert Dieudonné, fino ad allora attore di titoli minori, ma il film non è ricordato per questo: tra macchina mobile, sovrimpressioni, split screen (tra i primi nella Storia) destruttura l'epica napoleonica attraverso la novità del linguaggio e resta oggi un vertice dello sperimentale. Lo stesso Napoleone è un sovrano inedito e spiazzante: forse per questo alle sorgenti del cinema ispira in particolare i registi d'avanguardia. Lo stesso Gance gli darà un seguito meno noto con La battaglia di Austerlitz (1960), più moderno kolossal che segue un'altra stagione nella vita, quella che si conclude con la battaglia del titolo nel 1805.
Napoleone è per molti un'ossessione. Di sicuro la sua figura ha rincorso il genio di Sacha Guitry, che lo ha rappresentato tante volte, sia come protagonista che comprimario. In Le Destin fabuleux de Désirée Clary (1942) inscena la storia d'amore tra la regina di Svezia e Norvegia del titolo e il Bonaparte. Il quale torna anche ne Il diavolo zoppo (1948) dedicato a Tayllerand e ottiene un affresco storico frontale in Napoleone Bonaparte (1955). Ma il migliore resta quello che appare come immagine nel racconto di uno scrittore, nel capolavoro Le perle della corona del 1937.
Anche la modernità del cinema è parecchio napoleonica. Lo interpreta Marlon Brando in Désirée di Henry Koster (1954), nuovamente dedicato alle peripezie amorose di Bonaparte. Il quale è epica, dramma ma anche commedia. Lo dimostra in Italia Napoleone di Carlo Borghesio (1952), commediola con al centro Renato Rascel, in cui la statua di Napoleone si anima e narra le sue gesta, ricorprendole di ridicolo. Woody Allen tenta di ucciderlo in Amore e guerra (1975), per accontentare l'eterea musa Diane Keaton, in una delle sequenze slapstick più geniali del primo Allen: per accoppare il flagello d'Europa si nasconde dietro al divano imperiale. Anche un regista sovietico ha detto la sua. È Sergej Bondarčuk con il bellissimo Waterloo (1970), che da russo preferisce naturalmente l'istante della sconfitta. Nella coproduzione italiana, con marchio di Dino De Laurentiis, Rod Steiger è Napoleone, il duca di Wellington lo fa Christopher Plummer, Luigi XVIII è addirittura Orson Welles.
Un "pazzo" contemporaneo come Terry Gilliam convoca Napoleone ne I banditi del tempo (1981), in forma d'apparizione con la faccia di Ian Holm. Una delle rappresentazioni più oblique e peculiari arriva ne I vestiti nuovi dell'imperatore (2001) di Alan Taylor, film a torto un po' dimenticato: il racconto immagina una fantasiosa fuga da Sant'Elena, per tornare in società e al potere, sostituito da un sosia in prigionia. E soprattutto è racchiuso ancora nella classe dell'attore britannico Ian Holm, che dunque non è stato solo Bilbo Baggins nella Terra di mezzo, ma anche due, quasi tre "napoleoni". E da noi? Torna sull'argomento Paolo Virzì con N - Io e Napoleone (2006), ambientando la storia tratta dal romanzo di Ernesto Ferrero nel 1814, al confino dell'Elba. Un giovane insegnante (Elio Germano) viene scelto dal sovrano per riordinare le sue carta, solo che... è un anti-napoleonico e vuole ucciderlo, eliminando così il portamento regale di Daniel Auteuil.
Tante versioni, altre ce ne sarebbero (e ce ne saranno). Dal dramma alla commedia, dalla Storia all'immaginazione. Dall'epica delle conquiste agli amori (anche i re piangono), fino all'archetipo dell'uomo comune davanti al potente. Registi "fuori", di smisurata ambizione o scettici che vogliono la risata; attori caratteristi o grandi protagonisti, rigorosamente "non alti" come il loro personaggio. Ma il punto è un altro: se è vero che il cinema è uno specchio magico, Napoleone fin dall'inizio è stato il narciso che vi si rimira, nella grandiosità della sua follia, passando per gli sguardi dei registi.