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L’intervista a Laura Carrer, giornalista e autrice insieme a Luca Quagliato, videomaker, del film sperimentale Life is a game. Ibridando inchiesta e fiction animata, il documentario approfondisce la vita di 13 rider da tre diversi continenti. Lo spettatore è attirato dentro a quello che sembra essere un grande – e a volte pericoloso – gioco.
Avete ricevuto il premio Bruno Ugolini, alla prima edizione, intitolato alla memoria di un grande giornalista, che ha dedicato la sua vita al racconto del lavoro. Cosa significa per voi questo riconoscimento?
È stato molto bello ricevere il premio, anche per le motivazioni che ci ha dato la giuria molto toccanti e profonde. Ci fa piacere che persone che conoscono approfonditamente le questioni del lavoro contemporaneo abbiano trovato un riscontro in Life is a game. Il settore dei rider contiene in sé molte di quelle problematiche e, nonostante sia un impiego basato sull’uso della tecnologia, paradossalmente ci riporta a una concezione del lavoro novecentesca, da parte delle aziende, rispetto alle dinamiche di sfruttamento e ai rapporti di forza che si innescano.
A proposito di come è cambiato il lavoro, fino a 15 anni fa, la frontiera estrema della precarietà e dello sfruttamento era rappresentata dai call center. Oggi sono i rider. La sensazione è che, come in Stupori e tremori di Amélie Nothomb, ci sia una costante e inesorabile discesa verso il basso che non sembra toccare mai il fondo.
Sì, esatto. La cosa interessante è che le aziende tecnologiche, le piattaforme, descrivono queste attività come l’espressione più innovativa del lavoro moderno. Eppure si fondano su dinamiche vecchie e già viste: il lavoro a cottimo, per esempio. Ma la cosa più interessante sono state alcune risposte che i rider intervistati ci hanno dato. Noi siamo partiti dall’assunto che loro si sentissero sfruttati e insoddisfatti della precarietà. E invece molti di loro ci hanno comunicato che il lavoro flessibile, di per sé, è per loro un valore importante. É così per molti giovani oggi, che preferiscono sentirsi liberi dal rapporto strutturato e gerarchico con un datore di lavoro, tipico di chi è dipendente. Il problema vero è che la risposta delle aziende a questa esigenza non è la flessibilità, ma è la precarietà, con tutti gli effetti negativi su tutele e diritti che ne conseguono.
Il vostro film, come già dal titolo, affronta la questione della gamification, che nel settore dei rider è molto forte: l’introduzione di elementi propri della competizione e del videogioco all’interno delle dinamiche lavorative. Ancora una volta, se pensiamo alla storia del cinema, gli autori avevano già immaginato in maniera distopica il futuro che stiamo vivendo.
La gamification è fortemente presente ormai in diversi ambiti, non solo in quello del food delivery. La giornata lavorativa viene costellata e scandita da elementi propri di una dimensione ludica, come se fosse così possibile alleggerirla. Ma non è altro che un espediente per rendere il lavoratore meno cosciente di stare lavorando. Dunque di percepirsi – e di essere percepito – come se la sua attività non fosse un vero lavoro. E se non sei un lavoratore o una lavoratrice, allora non hai niente da chiedere o da pretendere. Noi, al contrario, pensiamo che non sia e non abbia niente di diverso rispetto a un lavoro più tradizionale. Sono gli strumenti utilizzati dall’azienda a creare una sorta di effetto “mondo parallelo”, in cui il lavoratore usa un’app piena di suoni, colori, ricompense, bonus, come se stesse giocando a un videogioco. Ma così non è. In più i rider lavorano da soli, dunque fanno estrema fatica a percepirsi come categoria.
Tra le grandi battaglie e conquiste del sindacato in epoca recente c’è proprio quella relativa al riconoscimento di tutele e diritti per i lavoratori del delivery. Oltre al tentativo di provare a creare aggregazioni (si pensi a realtà come ‘La casa dei rider’ della Cgil a Firenze). Ma è stato difficile intercettarli e chiedere loro di aprirsi?
All'inizio pensavamo che fosse abbastanza semplice parlare con i rider, che bastasse andare per strada e fermarne uno per avere il tempo di intervistarlo. Invece sin da subito ci siamo resi contro che non sarebbe stato così. Anche perché noi abbiamo intervistato persone anche all’estero e dunque abbiamo capito che avremmo dovuto chiedere supporto ai sindacati per riuscire a creare un contatto e, pian piano, instaurare un rapporto di fiducia. A quel punto, arriva la parte facile: lasciare che le persone si raccontino. Le persone hanno una grande capacità di raccontarsi se le metti nella condizione di farlo, senza fretta, a loro agio. Noi abbiamo realizzato molte più interviste delle 13 che sono entrate nel film. Ogni incontro durava un paio di ore. Il lavoro di taglio e selezione è stato lungo. Questo per dire che c’era molta voglia di parlare del proprio lavoro e di come questo si inserisce nella propria vita privata.
Il film è una sperimentazione, che ibrida interviste giornalistiche a scene di animazione. Perché questa scelta e come avete operato per amalgamare due linguaggi tanto diversi?
Ci siamo inventati una quattordicesima rider, che si chiama Emma e vive in un mondo virtuale, in una città fittizia. Grazie a lei abbiamo aggiunto un pezzo di racconto che non avremmo potuto affidare ai rider in carne e ossa. Attraverso lei, vediamo tutti quegli innesti tecnologici che entrano nella vita quotidiana di chi svolge questo lavoro, e che lo spettatore vede sotto forma di animazione. Grazie all’espediente della soggettiva, è come se vivesse anche lui la giornata tipo di un rider, quando è su strada.
Proprio a proposito di chi guarda, il film permette una doppia identificazione. Da un lato soggettiva, da parte dei rider, che si riconoscono sullo schermo. Dall’altra oggettiva: io spettatore, abituale fruitore dei servizi delivery. Pensiamo a tutte le volte che con un clic abbiamo ordinato la cena mentre fuori pioveva a dirotto, senza pensare a quanti rider in bici rischiavano la vita e la salute. Qui nel film li vediamo, vediamo cosa succede a loro mentre noi siamo al caldo e al sicuro nelle nostre case.
Sì, assolutamente. Infatti uno degli obiettivi del film è proprio quello di sensibilizzare lo spettatore: sebbene come clienti non possiamo migliorare le loro condizioni lavorative, possiamo tuttavia renderci coscienti di quali siano. Utilizzare il delivery e l’e-commerce non è di per sé un problema o una cosa negativa. Però è importante farlo con un po' di raziocinio. Ricordarci che, mentre noi ordiniamo e fuori diluvia, un rider arriverà da noi con una bici elettrica, o con uno scooter, quasi sicuramente non con una macchina. Dunque sta già facendo tutta una serie di cose che noi in primis non vorremmo fare. Dobbiamo provare prima di tutto a empatizzare. Ma questa è la forza del cinema: spingere le persone a ragionare, senza troppa intermediazione.