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Quello che segue è un estratto del volume di Italo Moscati Anna Magnani. Vita, amori e carriera di un'attrice che guarda dritto negli occhi, Ediesse, 2003.
Anna Magnani l’ho conosciuta. Le ho stretto la mano, timidamente, poi mi sono seduto accanto a lei e, guardandola abbassando spesso gli occhi, l’ho sentita parlare di un suo spettacolo, La lupa, un ritorno al teatro a metà degli anni Sessanta dopo tanto cinema e tanti premi fra cui l’Oscar. Era come ascoltare il sonoro di un film che mi scorreva nella memoria, scena per scena, lungo una carriera. Alla fine, avrei voluto riavere quella mano fra le mie per baciarla, gesto galante che già allora non faceva nessuno e, siccome ero molto giovane, arrossivo al solo pensiero di essere fuori moda agli occhi della diva poco divina che avevo appena sfiorato e della piccola folla che ci circondava. Me ne sono sempre pentito. Come ogni volta che, assalito dall’ansia o dalla timidezza, anche tu, spettatore comune, ammutolito per ammirazione, non sai dove mettere la testa e le mani di fronte a una persona che guarda dritto negli occhi; e capisci che la voglia di esprimere sincerità può persino soffocarti un poco.
Da quando ho aperto gli occhi al cinema, Anna l’ho accompagnata strada facendo, come lei ha accompagnato me, e tutti i suoi spettatori, anno per anno e anche dopo. Quando non c’era più, perché la morte se l’era portata via, sono rimasti i suoi film. Quei film che scavano nel tempo, ma non si tratta sempre e solo di Roma città aperta, perché Anna non è stata esclusivamente proprietà di questa pellicola e del suo regista Roberto Rossellini. In questo senso, si possono fare scoperte curiose, come è capitato a me e ai lettori di Le ore, il romanzo di Michael Cunningham del 1998 che ha ispirato Hours, il bel film di Stephen Daldry con Meryl Streep, Nicole Kidman e Julian Moore. Cunningham, in uno dei suoi racconti, a un certo punto, parlando di compere e di abbigliamento, si ricorda della Magnani e cita un vestitino nero con le stringhe. Sono andato a cercare questo vestitino e queste stringhe nelle foto e nei film che ho potuto recuperare. Non ho trovato nulla. Ma, mi chiedo, posso telefonare e scrivere a Cunningham, Premio Pulitzer, per chiedergli dove ha visto questo abito?
Si può morire di curiosità anche per le piccole cose. Le stringhe di Anna non appartengono però al mondo delle piccole cose. Sono nella soffitta dove sono conservati tutti quei segnali che il cinema, specie quello del divismo, ha sparso a piene mani dai lenzuoli bianchi dello schermo in poco più di un secolo di vita. Una prova? Una prova che non riguarda l’attrice di Roma città aperta? La fornisce uno scrittore che è stato un grande regista: Pier Paolo Pasolini. Pasolini scrive in Amado mio di essere rimasto folgorato da Rita Hayworth e dai suoi lunghi guanti neri, oltre che "dal suo immenso corpo, il suo sorriso e il suo seno da fanciulla, da prostituta equivoca e angelica".
Stringhe, lunghi guanti neri; oppure il nastro e il fiocco neri, i polsini bianchi di pizzo della Fidanzata d’America, Mary Pickford, indossati in occasione del più grandioso dei funerali dedicato al più grandioso divo della storia del cinema, Rudy Valentino. Le pagine di John Dos Passos intitolate "Tango lento", capitolo del suo libro Un mucchio di quattrini, descrivono la follia collettiva intorno alla bara di Rudy. Ma il nero e il bianco delle strisce di stoffa di Mary in contrasto con il drappo d’oro posto sulla bara dell’attore senza tempo, sembrano arrivare dall’aldi-là; superando i deliri, gli svenimenti, le grida dei bambini smarriti durante la cerimonia, mentre, da oltre Atlantico, da Londra, giunge appena attutita la voce di una giovane donna che si è tolta la vita per l’amore perduto, per un divo sceso a baciarla dallo schermo.
Le strisce di stoffa della Fidanzata d’America, il drappo d’oro sulla bara, sono le reliquie di una festa di morte che Dos Passos colloca nell’Olimpo del cinema. Il catalogo delle piccole cose – il reliquiario del cinema – è infinito, lacunoso e sempre incompleto. Malgrado ciò, anzi proprio per questa sensazione di smarrimento, ci infilano le mani Cunnigham, Pasolini, Dos Passos, e tutti coloro che cercano di capire il cinema e soprattutto i divi, anguille misteriose, sublimi e sfuggenti nel mare profondo della celluloide. (...)
E Anna? La Magnani è la più anguilla fra le anguille. Appartiene al cinema della leggenda, quello che è durato fino agli anni Settanta. Lo stesso che Gore Vidal in Remotamente sui nostri schermi ritiene un rinascimento del gusto e della fantasia. Appartiene al cinema della realtà, quello che l’ha resa famosa nel mondo e l’ha chiusa in un’icona dalle stringhe strette come le sbarre in una prigione di successo dalla memoria corta. Anna è il prodotto di tante immagini che risentono in modo quasi opprimente del tempo in cui l’attrice ha vissuto.
Il rischio rimane. L’idolatria del passato è caduta come le teste dei dittatori del Novecento e le industrie dei sogni sono altrettante fabbriche di divi in cui lavora a pieno ritmo una sorta di catena di montaggio della banalità e del sorriso forzato. L’aura che circondava gli attori e i loro segreti si è dissolta. Persino la cronaca nera del vecchio cinema, narrata da Kenneth Anger in Hollywood Babilonia, con i suoi delitti, la droga, la follia, il sesso e la depravazione, si è arresa, sconfitta, superata, dimenticata. La nuova Babilonia spalanca le sue porte da dove entrano ed escono atleti dell’intrattenimento banale propagandati dai media in cui lo spettatore a casa, davanti alla tv, si riconosce come semplicemente nella media.