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Leslie T. Chang è una scrittrice e giornalista statunitense di origini cinesi il cui ultimo lavoro, appena pubblicato, dal titolo Egyptian Made – Donne lavoro e una promessa di liberazione (Marietti 1820, pp. 365, euro 27) racconta del suo trasferimento al Cairo nell’ottobre del 2011 con il marito, Peter Hessler, insieme alle loro due gemelle di un anno e mezzo. E anche se originariamente l’intenzione non era quella di “scrivere di fabbriche”, come accaduto in un precedente volume dedicato alla Cina, tradotto in Italia da Adelphi nel 2008 con il simbolico titolo Operaie, l’interesse di Chang continua anche in questo caso a indagare il rapporto delle donne con il mondo del lavoro, argomento certo non semplice da trattare in Egitto, e nel mondo arabo in genere.
Giunta proprio in quel periodo nel Paese, la scrittrice prende spunto dalla grande partecipazione femminile alle proteste della Primavera araba, che ha contribuito a far cadere il regime di Hosni Mubarak, organizzando scioperi (della fame) e cortei, occupandosi del cibo e dell’assistenza medica per i manifestanti, con la speranza che questa loro presenza potesse portarle alla conquista di maggiori diritti e maggior rispetto nei loro confronti. Come viene ben descritto, le cose sono andate diversamente.


Tra l’inchiesta giornalistica e la narrazione pura, mescolanza di cui Chang si rivela ancora una volta brillante interprete, il libro disegna i contorni di figure umane accanto a notizie e informazioni utili per comprendere meglio la loro realtà, partendo da un dato: per ogni donna egiziana lavoratrice ce ne sono almeno quattro che restano a casa, percentuale tra le più penalizzanti al mondo, rimasta invariata negli ultimi trent’anni. Questo anche perché, malgrado le rivoluzioni, l’Egitto continua a essere uno stato di polizia guidato da chi è salito al potere approfittando del caos, riempendo ancora le strade di carri armati e militari in assetto da guerra. Facile intuire come, negli anni vissuti qui, per l’autrice la ricerca di voci e testimonianze non sia stata troppo agevole, soprattutto nelle zone visitate al di fuori delle grandi città.
Le prospettive delle donne egiziane stanno dunque peggiorando, anche perché molte di loro preferiscono tornare al “buon matrimonio” rispetto ai rischi di un lavoro che comunque le relegherebbe a un ruolo atipico nella società in cui vivono (“una donna che lascia la casa senza il permesso del marito è considerata nashiz – ribelle – e perde il diritto al suo sostegno economico). Di conseguenza, la dipendenza dalla figura maschile torna a essere soffocante.


In questo quadro il settore pubblico può rivelarsi un riferimento importante, garantendo salari paritari, qualche benefit, un orario di lavoro vantaggioso. Peccato che anche qui invece di avanzare si arretra, compreso il numero di donne assunte. Se poi si guarda oltre le dipendenti del pubblico servizio, trovare un lavoro può comportare numerose difficoltà soprattutto in termini di sicurezza, perché trovare un’occupazione in ambienti privati significa rischiare la propria incolumità, fisica e morale.
Eppure questo libro, a cominciare dalla storia di Rania, la prima tra le donne che si incontrano nel volume, in grado di emergere professionalmente all’interno di una fabbrica tessili Delta, e dove viene data voce alle operaie impegnate nella catena di montaggio, può anche leggersi come una serie di testimonianze volte alla speranza, perché ci sono protagoniste coraggiose che cercano la propria strada malgrado tutto, malgrado tutti; ed è proprio questa loro caparbietà che un giorno potrà cambiare l’attuale ordine delle cose.
Un ordine discriminatorio, maschilista, fuori tempo, di cui in qualche modo, entrando nel cuore delle storie di queste donne, alla fine dell’ultima pagina ci si sente partecipi, e inermi.