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Il 19 gennaio del 2021 ci lasciava Emanuele Macaluso. Nato il primo giorno di primavera del 1924 in una famiglia di modeste condizioni economiche (il padre era operaio delle ferrovie, la madre casalinga), nel 1941 aderisce clandestinamente al Partito Comunista d’Italia.
La gioventù di Macaluso
Giovanissimo è tra i protagonisti del movimento sindacale siciliano, nominato nel 1944 segretario generale della Camera del lavoro di Caltanissetta, nel 1947 segretario generale della Cgil siciliana.
Sono gli anni della lotta dei contadini per la terra, degli zolfatari per il lavoro, il salario e condizioni di vita decenti, gli anni della lotta contro la mafia. In qualità di segretario generale della Camera del lavoro di Caltanissetta, Emanuele è sulla piazza di Villalba insieme a Li Causi quando don Carlo Vizzini guida la sparatoria contro il comizio del leader del movimento contadino siciliano al quale i contadini avevano partecipato disubbidiendo al diktat del boss. “Fu quello il mio primo bagno nella mafia del feudo, la mafia che aveva le terre in affitto”, ricorderà anni dopo.
Nel maggio del 1948 Macaluso è a Portella della Ginestra per commemorare il primo anniversario della strage. Ed a Portella, nella sua amata Sicilia, ritornerà per l’ultima volta nel maggio del 2019.
Non volevo mancare a quest’ultimo appuntamento della mia vita. Questa sarà forse la mia ultima presenza qui (…). Volevo tornare qui oggi dove sono cresciuto politicamente. Non potevo mancare a questo appuntamento, volevo tornare qui, questi sono stati i momenti della mia formazione. Per me, che poi ho avuto tanti incarichi, la mia formazione politica, sociale e umana è legata agli anni in cui sono stato nel sindacato in cui ho potuto coltivare un rapporto umano con migliaia di lavoratori, contadini, metallurgici, operai, braccianti e zolfatari. Quando gli operai del Cantiere scioperavano per 40 giorni e gli zolfatari per 60 giorni, pensate che io di notte potessi dormire? No, pensavo a quelle donne, a quegli uomini a quei bambini. Uno sciopero in quegli anni per me diventava un modo diverso di concepire il lavoro e la battaglia sindacale. E questo è stato. Ho diretto l’organizzazione del Pci, sono stato senatore, direttore de l’Unitá, ma la mia nascita come persona è qui.
L'importanza di Macaluso
“Emanuele ha avuto una gran vita - diceva il giorno dei funerali l’allora ministro Peppe Provenzano - vittorie e sconfitte, grandi amori e grandissimi dolori. È stato generoso nel raccontarli. Alcuni, li ha solo confidati. Oggi lo piange la famiglia (…). Lo piangono i compagni, gli amici di una vita, quelli che il 21 marzo non sapranno come festeggiare l’arrivo della primavera, tutti coloro che lo considerano un maestro. Per me è stato come un padre. Un padre, in una Patria sempre più povera di padri. Ma non si resta orfani di padri come lui. Noi non siamo orfani. Una storia così, dallo zolfo alle stelle, è una storia che non muore”.
“Macaluso - scriveva Concetto Vecchio - è stato allo stesso tempo disciplinato e libertario, fuori e dentro la grande chiesa comunista. Era sferzante, aspro, difficile da maneggiare, ricordava più le vicende pubbliche di quelle private. È stato un rompiscatole intelligente e libero, perché gli si potevano fare tutte le domande. Pur sentendosi estraneo a questo tempo, ha continuato a indagarne le contraddizioni. La crisi della sinistra, a cui aveva dedicato la vita, lo crucciava. I suoi corsivi mattutini, anche nella stagione sbrigativa del tweet, sono stati lampi di intelligenza (…) Lo ricordo adesso serrato nel cappotto una sera di novembre, mentre tornava a casa, nel vento sferzante di Testaccio. Parlò di Di Vittorio, e delle lotte per i braccianti nell'Italia del dopoguerra. ‘Che tempi’, sospirò, all’improvviso, come folgorato da quell’antica memoria. L’Italia povera di cui la sinistra si prese letteralmente cura. ‘N'è valsa la pena’, disse Macaluso e scomparve nel buio”.
Ne è valsa la pena. Ed in questo buio che oggi più che mai sembra avvolgerci, quanto ci manchi Em. Ma. Quanto ci manca quel sorriso furbo da eterno ragazzino, “strepitoso impasto di ruvida umanità e lucidità analitica”. Ma noi non siamo orfani. Siamo figlie e figli di una storia che non muore. Una storia che è nostra, che è stata e continua ad essere anche tua.
Una storia che continueremo a scrivere e a raccontare, con la consapevolezza di servire una causa grande, una causa giusta. Con la consapevolezza che ne è valsa la pena. Ne vale la pena.