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Sono passati quarant’anni da quell’11 giugno 1984, il giorno in cui Enrico Berlinguer morì in seguito all’ictus che lo colpì durante il comizio in Piazza della Frutta a Padova, tenuto poche sere prima e portato a termine sino allo stremo, per concludere la campagna elettorale delle elezioni europee che si sarebbero tenute alla fine di quella tragica settimana. Ma in questi quarant’anni Berlinguer ha continuato a parlarci, sempre di più, in forme sempre diverse. Questa volta lo fa attraverso un film, Berlinguer - La grande ambizione, e l’interpretazione di Elio Germano, ancora una volta curata sin nei minimi dettagli, restituendo agli spettatori una figura umana e politica tra le più originali e iconiche dell’intero Novecento italiano.
Abbiamo raggiunto per alcune domande il regista Andrea Segre, che ha concentrato la sua pellicola su alcuni anni specifici di Berlinguer come segretario del Partito comunista italiano, partendo dall’attentato miracolosamente scampato a Sofia il 3 ottobre del 1973.
Come mai la scelta di raccontare, della vita umana e politica di Enrico Berlinguer, soltanto gli anni che vanno dal 1973 al 1978?
Sin dall’inizio io e lo sceneggiatore Marco Pettenello ci siamo detti che il film non doveva essere una biografia intera, ma che dovevamo cercare di entrare nel nucleo più profondo della sfida politica di Enrico Berlinguer, andando alla ricerca di quelle emozioni che hanno attraversato migliaia, direi milioni di famiglie italiane, per provare a restituire alla memoria i contenuti veri dell’azione politica di Berlinguer, i motivi per cui tanta gente ha pensato e continua a pensare a lui. Ci è sembrato che quegli anni fossero i più intensi, quelli della grande avanzata del Partito comunista, che raggiunse il 34%, e che ponevano la questione democratica del poter accedere al governo, il vero tabù per un paese occidentale all’epoca. Sono anche gli anni in cui si sviluppano decisioni alte e violente, non solo in Italia: il golpe in Cile e la morte di Allende, gli attentati del terrorismo eversivo neofascista come a Piazza della Loggia, le violenze del terrorismo delle Brigate rosse, l’assassinio di Aldo Moro.
Subito dopo l’anteprima a Roma, il film è sbarcato in Sardegna. Come è stato accolto?
Un’esperienza molto bella, tantissima gente è venuta alle proiezioni, sia a Sassari che a Cagliari, e mi hanno colpito i complimenti riservati a Elio Germano per esser riuscito a entrare anche linguisticamente nel personaggio di Enrico. Con Elio abbiamo incontrato e re-incontrato le persone che ci avevano accompagnato durante la preparazione del film, un rapporto fondamentale che volevamo stabilire con la cultura sarda. Abbiamo passato molte giornate insieme a vecchi compagni che avevano partecipato a quella stagione, parenti e amici, anche più giovani, che ci hanno aiutato a capire cosa significhi essere di Sassari, quale sia il senso di appartenenza.
Durante la visione, con il passare dei minuti cresce la sensazione di una distanza siderale con la politica di oggi…
Credo che la differenza sia non soltanto tra la politica di allora e quella di oggi; in generale sono la tipologia di società e il rapporto tra spazio e luoghi ad essere cambiati, l’io e il noi, le vite e le comunità. Nel frattempo il mondo si è globalizzato, la partecipazione e la connessione è diversa, quindi sono cambiate anche le modalità antropologiche della comunicazione tra le persone. La forma della politica, sull’onda di una crescita della spinta individualista, si è trasformata anche grazie a personaggi discutibili in un trust di interessi tra clan, gruppi, club. Invece che un’espressione di esperienze collettive ha determinato l’affermarsi dell’immagine “o io o te”, attraverso una politica distaccata dalla vita delle persone, non più controllabile.
Dunque la politica non serve più?
La politica continua ad avere un ruolo importante, le nostre vite sono ancora influenzate dalla politica; ma molti di noi hanno rinunciato a controllarla, a gestirne una relazione reciproca, hanno deciso di non votare: un mutamento non da poco. La visione del film pone anche questo interrogativo, cosa abbiamo perso e come facciamo a inventarci una nuova relazione politica.
Il film è appena uscito nelle sale. Si aspetta un pubblico partigiano o più trasversale?
Il film è per tutti, abbiamo cercato di costruirlo non parzializzando l’arena ma allargandola il più possibile, per restituire a chi ha vissuto un’emozione, per condividere con chi non era d’accordo, per proporre una scoperta a chi non ne sa niente. Tutto questo aiuta nell’esercizio di rielaborazione della memoria in relazione all’oggi. In questo senso, la riconosciuta “trasversalità” di Enrico Berlinguer avvenuta in questi anni aiuta molto.