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Ritratto della giovinezza al lavoro. Che in questo caso, trattandosi del più grande distretto tessile della Cina - a poco più di 100 chilometri da Shanghai - significa turni dalle 8.00 alle 23.00. per sette giorni a settimana, con due pause per i pasti. La domenica si stacca prima, ore 17.00. Siamo a Zhili, 20mila atelier privati, a gestione familiare, fuori dal controllo dello Stato. Piccole imprese tessili dove ogni anno trovano impiego circa 300mila operai migranti, tra i 20 e i 30 anni, provenienti dalle campagne, impegnati a cucire soprattutto abiti da bambino. E il più velocemente possibile: sono pagati a pezzo. A raccontarli è Jeunesse (Le printemps) il grande film operaio atteso a questo festival di Cannes, dove la narrazione del mondo del lavoro non manca. È anche l’unico documentario in corsa per la Palma d’oro e che porta la firma di uno dei più grandi registi del cinema del reale, Wang Bing.
Protagonista (e premiato) a tanti festival internazionali, l’autore cinese (classe ’67) torna a raccontare proprio quel mondo del lavoro da cui era partito, narrandone mutamenti e crisi legate alla trasformazione dell’economia socialista in quella di mercato. Il folgorante Il distretto di Tienxi (2002), nove ore suddivise in capitoli, aveva fatto conoscere all’Occidente la storia del complesso industriale che negli anni ’80 dava lavoro a un milione di operai e vent’anni dopo fermava i battenti. Oppure Crude Oil (2008), film record di 14 ore al seguito degli operai del settore petrolifero nel deserto dei Gobi.
Grande narratore dei personaggi più ai margini e più fragili (Tre sorelle) Wang Bing ha spesso lavorato in clandestinità, scegliendo di svelare la Cina non ufficiale, quella più povera e diseredata, quella feroce del maoismo, dei sopravvissuti ai campi di lavoro (Engming, chronique d’une femme chinoise) o alla rivoluzione culturale. Come l’altro film in mostra qui a Cannes Man in Black, dedicato al più grande musicista cinese che ha vissuto quell’esperienza sulla sua pelle, tra torture e terrore.
Ma non solo povera e marginale è la Jeunesse, appunto, che ci narra in questo suo nuovo lavoro, primo capitolo- annuncia- di una trilogia dedicata ai giovani cinesi. L’ambiente è davvero impressionante, neanche fosse uscito dalla mente di un architetto torturatore. Lunghi e sterminati palazzoni di cemento che ospitano dormitori e atelier sugli stessi piani. Un alveare senza fine, sudicio, freddo, senza acqua corrente eppure stracolmo di vitalità. E, soprattutto, di amori. È un ritratto gioioso, infatti, quello che ci rimanda il film, oltre tre ore che a tratti si trasformano quasi in commedia romantica. I ragazzi e le ragazze si fanno i dispetti come alle elementari, amoreggiano, si corteggiano, sognando matrimoni e figli per il loro futuro, mentre pigiano forte sui pedali delle macchine da cucire e le canzoni d’amore riempiono l’ambiente.
Non si fanno tante domande questi giovani operai stagionali, se non quando arriverà la paga e a quanto ammonterà. I telefoni cellulari sono sempre accesi e avere quelli di nuova generazione è un po’ il sogno di tutti. Insomma, siamo in Cina ma potremmo essere ovunque. Anche per le strade di New York, per esempio, o della sua China Town - case-dormitorio affilatissime anche qui - che fa da scenario all’altro film del concorso - a tema lavoro - passato proprio in coppia con Jeunesse.
Parliamo di Black Flies di Jean-Stéphane Sauvaire, produzione indipendente, riprese sotto il rigido controllo del sindacato - ci tiene a sottolinearlo il regista - e una storia fin troppo adrenalinica per raccontare l’inferno dei paramedici addetti alle ambulanze della Grande mela. Persino Sean Penn - che figura tra i produttori - sembra la caricatura di se stesso nei panni del vecchio consumato dalla vita e da un lavoro che non lascia tregua.
Si conclude così questa prima settimana del festival, in cui le più grandi sorprese sono venute dai film sulla memoria. L’ultimo, sconvolgente, The Zone of Interest del cinquattottenne britannico Jonathan Glazer. Sulle tracce dell’omonimo romanzo dello scrittore britannico Martin Amis, il regista ci porta di fronte all’orrore di Auschwitz. Nascosto però dal muro di recinzione della villetta del comandante responsabile dello sterminio. Una confortevole residenza con giardino pieno di fiori dove vivono, come nulla fosse, i cinque figli e la moglie. Mentre di notte le fiamme dei crematori rimandano un’inquietante luce rossa attraverso le finestre. E le grida dei deportati, l’abbaiare dei cani e i colpi di pistola, sono il rumore di fondo.