Il docu-film di Stefano Polito ha coinvolto attivamente le studentesse e gli studenti della Scuola Media Gabelli di Torino. Prima della realizzazione delle riprese, c'è stato un lavoro di preparazione sulla base degli studi del Dossier Immigrazione Idos, dal quale sono stati estrapolati alcuni dati più significativi da mettere nero su bianco durante le riprese, a tessere la trama insieme alle storie personali dei ragazzi migranti e italiani. Tra le voci sentite oltre a quelle degli studenti, anche quella del Dipartimento Immigrazione della Cgil Piemonte, che attraverso il suo responsabile, Lamine Sow, ha dato un contributo significativo al docu-film.

Stefano Di Polito, come ha lavorato con i ragazzi alla realizzazione del docu-film, c’è stato un percorso di avvicinamento preliminare alle riprese?
Questo è il terzo film in cui provo a raccontare il quartiere in cui vivo, a Torino, uno dei più multiculturali d’Italia. Nei primi due avevo coinvolto bambini più piccoli e giovani adulti. In questo lavoro mi interessava approcciarmi al pezzo mancante, la generazione di mezzo, quella degli adolescenti. Mi ha spinto a farlo un dato per me abbastanza incontrovertibile e centrale - o almeno così dovrebbe essere - per il nostro Paese: il livello di istruzione medio in Italia è la terza media. E allora perché non partire da loro, i ragazzi che le medie le frequentano in questo momento? Inoltre la politica, i media, i social trattano gli italiani come se fossero tutti degli adolescenti, parlando alla loro pancia, e dunque perché non far rispondere loro? C’è una semplificazione estrema dei messaggi, soprattutto sull’immigrazione: è un pericolo.

Guardando P.I.L, si segue il filo del discorso portato avanti dai ragazzi e ci si fa anche delle domande. Per esempio, se gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, allora lo fanno anche gli italiani che si spostano in una regione diversa da quella in cui sono nati?
Stiamo assistendo a una estrema polarizzazione del tema: da una parte, ci sono quelli per cui l'immigrazione è un problema e soltanto un problema. Dall’altra parte, c’è una semplificazione della questione da parte di chi “difende” gli immigrati, ma lo fa eludendo che sia un tema comunque complesso. Questo è lo schema comunicativo che viene restituito a una popolazione trattata come immatura. Rompere questo schema vuol dire costruire una narrazione alternativa, a partire dal titolo: P.I.L, prodotto interno lordo, diventa “perché l’immigrazione è lavoro”. Questo per sottolineare due aspetti: da un lato, il grande contributo economico degli immigrati alla nostra società; dall’altro il fatto che immigrati non possono essere considerati una categoria, un unico blocco. Non sono persone che vengono in Italia per fare gli immigrati, sono persone che vengono nel nostro Paese per lavorare. Ogni volta che abbiamo di fronte a noi un immigrato, dovremmo fare lo sforzo di considerarlo una persona.

Un aspetto che emerge con forza dal doc è lo smarrimento provato da questi ragazzi, che si sentono stranieri ovunque. In Italia non hanno la cittadinanza del Paese in cui sono nati. Ma nel Paese di origine dei propri genitori, in molti casi, non ci sono neanche mai stati, o non ne parlano la lingua. 
Ci sarà un referendum sulla cittadinanza, e forse questo film sarà utile a smontare tutti gli stereotipi sui migranti, spiegando perché, in realtà, sono per noi una ricchezza. Se noi la mettiamo sul “difendiamo gli immigrati” non andremo da nessuna parte. Ma se invece proviamo a dire “difendiamo l’Italia che ha bisogno degli immigrati?” Allora se davvero vuoi difendere gli interessi degli italiani, con questo documentario ti spieghiamo perché devi cambiare opinione sui migranti, rispetto ai quali è diffusa una percezione totalmente falsata. Il 55% degli italiani li vede come un problema. Una volta su due che questi ragazzi incontrano qualcuno per strada, vengono considerati un problema che cammina. Nel loro caso, oltre al fatto di avere spesso la pelle nera, si aggiunge quello di essere adolescenti, dunque la categoria in assoluto più considerata “un rischio” dalla società. Altro dato sballato: gli immigrati sono circa il 10%, ma vengono percepiti come se fossero circa il 30%. C’è proprio una distorsione della realtà, frutto anche di campagne politiche che durano da più di vent’anni. A questi dati noi ne contrapponiamo altri, quelli reali, che i ragazzi protagonisti del doc illustrano.

Abbiamo attribuito la responsabilità della disinformazione a campagne politiche basate sulla propaganda e il populismo. Ma quanta responsabilità, invece, abbiamo noi che viviamo in questo piccolo pezzo di mondo altrettanto falsato? Quello in cui la maggioranza delle persone sono laureate, non esiste il digital divide, né l’analfabetismo funzionale? 
Purtroppo è così. Nei quartieri multiculturali bisogna andarci, incontrare le persone, scoprire quali sono i problemi reali con cui si confrontano, le ansie, le preoccupazioni: il permesso di soggiorno non rinnovato, i ricongiungimenti familiari, le difficoltà di educare un figlio che vive una cultura diversa dalla propria. Se tu fai in qualche modo parte di quel mondo che credi di rappresentare è un conto, se invece vivi nel tuo mondo borghese senza mai uscirne, allora anche le tue percezioni rischiano di essere falsate. E se è così, diventa altrettanto importante provare a confrontarsi con quelli che per paura o per ignoranza credono che davvero i migranti siano un pericolo. Provare a parlarci, a smontare pezzo per pezzo le preoccupazioni di chi si sente minacciato. Non serve essere snob, ma può servire invece dare una risposta diversa, una visione alternativa, offrire loro una lettura più lucida della nostra società. 

La scuola dovrebbe essere il principale luogo in cui si realizza l’integrazione. Di fatto, però, gli insegnanti si confrontano con classi divise, adolescenti che ne bullizzano altri, e genitori poco consapevoli di queste realtà. Che adolescenti ha incontrato lei, da questo punto di vista?
Le classi in cui abbiamo girato sono composte per la quasi totalità da immigrati di seconda generazione, o ragazzi con uno dei due genitori stranieri. Gli italiani sono una minoranza, perché per la maggior parte scelgono di non iscriversi in queste scuole. Noi abbiamo incontrato insegnanti e dirigenti straordinari, squadre di lavoro che avrebbero bisogno di molte più risorse e attenzione, perché è in mezzo a loro che si costruisce il futuro della nostra società. Il problema vero è ciò che succede a questi ragazzi quando escono da scuola e vanno in altri contesti. O vanno sui social, nonostante siano studenti modello, che vogliono farcela e che spesso poi ce la fanno. Perché se vieni da una famiglia semplice, che vive delle difficoltà, hai solo due strade: o fai il passo sbagliato, oppure l’unica salvezza che hai è lo studio. Proprio per questo vanno incoraggiati, protetti da chi li discrimina. Vanno fatti uscire da quei quartieri che diventano ghetti. 

Come si è approcciato ai ragazzi, che lavoro c’è stato prima e durante le riprese?
Abbiamo fatto un lavoro molto divertente, mi hanno aggiunto ai loro gruppi whatsapp per prendere appuntamento e avere un filo diretto. Abbiamo tenuto lezioni improvvisate. Spesso quando si girava capitava che parlottassero, o facessero rumore mangiando e ridendo. Ma quando si gira serve il silenzio assoluto. Allora mi fermavo e li riprendevo: “Ma voi avete capito cosa stiamo facendo?”. A quel punto diventavano seri: “Lo abbiamo capito più di te”. Ed è così, perché è delle loro vite che si tratta.

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