Pubblicato per la prima volta nel 2004 con il titolo “Via dal vento” da Manifesto Libri, il giornalista e studioso Marco D’Eramo propone ai lettori il suo reportage nel profondo Sud degli Stati Uniti, I terroni dell’Impero (Marietti1820, pp. 288, euro 19), in una nuova veste non soltanto nel titolo, arricchendolo di ulteriori riflessioni legate alla più stretta attualità della politica e società statunitensi, analizzate con il consueto sguardo profondo e spietato. Nella sua introduzione a questa edizione l’autore spiega di essere tornato sui suoi passi narrativi anche per mostrarci, a vent’anni esatti di distanza, come dal South Carolina alla Lousiana ben poco sia cambiato in termini di mentalità, abitudini e convinzioni, tutte avvolte dal manto di un permanente razzismo di fondo, mai estirpato davvero, e che in virtù del voto del 5 novembre potrebbe riemergere, più vivo che mai.

Questo libro presenta un titolo che ci chiama direttamente in causa. Pensavamo che i “terroni” esistessero solo in Italia…
I terroni sono una categoria dello spirito. Penso a come venivano considerati i bavaresi in Germania, o adesso parte dei tedeschi orientali: dall’accento pessimo, cafoni, pigri, incapaci di iniziativa, a carico dello Stato. I terroni sono quelli che pongono la questione che noi chiameremmo “questione meridionale”, con gli stessi stereotipi e pregiudizi. Nel titolo voglio dire che tale questione esiste anche negli Usa, seppur diversa dalla nostra, da più di 150 anni. Con qualche somiglianza.

Per esempio?
Beh, nella loro guerra civile, che noi chiamiamo di secessione, il Nord vinse contro il Sud; ma a causa della prima guerra mondiale, tra gli anni ’10-‘20 del Novecento, furono costretti a chiamare dal Sud i neri per farli lavorare nelle fabbriche, quella “grande migrazione” che richiama la nostra negli anni ’60. E una delle conseguenze fu la nascita dei ghetti per i neri che prima, in città come New York, Chicago, Pittsburgh, Baltimora, non esistevano. In questo senso, c’è un altro elemento da tenere in considerazione.

Quale?
Tutti gli Stati che ho visitato e descritto nel libro sono relativamente più poveri della media statunitense, e dalla composizione razziale più estrema. Mentre negli Stati del Nord la media dei neri è del 13%, in Georgia, Alabama, Lousiana e Mississipi è del 30%; e se al Nord la media della presenza degli ispanici è del 19%, in Florida è del 27%, mentre in Texas arriva al 40%. Una composizione razziale accentuata, a cui si aggiunge la forte eredità schiavista, quella delle piantagioni. Un’eredità difficile da estirpare, come dimostra la presenza ancora viva di bandiere confederate davanti al Campidoglio di ogni Stato del Sud.

Come è organizzato oggi il mondo del lavoro nel Sud degli Usa?
Partiamo da un punto comune in ogni angolo del Paese: negli Stati Uniti sindacalizzarsi non è una cosa semplice. Non è come in Italia, dove uno si presenta e dice “voglio la tessera”. Lì c’è bisogno che tutto lo stabilimento, tutta la fabbrica voti a maggioranza l’intenzione di sindacalizzarsi. Una volta espresso il voto, il padrone non è comunque obbligato a concedere la sindacalizzazione alla sua azienda, dunque dopo il voto, una fabbrica o un ospedale deve scioperare per ottenere questo suo diritto, sino a quando la controparte cede.

Una situazione non certo facile.
No. C’è chi può perdere anche un anno, un anno e mezzo di salario, e durante lo sciopero negli Usa assumere crumiri che sostituiscano gli scioperanti è perfettamente legale. Ecco perché, molto spesso, i lavoratori si appoggiano a sindacati già esistenti. Può così accadere che ci siano assistenti universitari iscritti al sindacato dei camionisti, come succede in California, o che le infermiere si rivolgano al sindacato dei metalmeccanici, tra i più forti. Nel complesso la situazione dei lavoratori, specialmente degli operai, è notevolmente peggiorata.

In che modo?
Negli anni ’50-’60 i lavoratori delle grandi fabbriche americane guadagnavano intorno agli attuali 100.000 dollari ogni anno, una bella somma. Poi, con la promessa di abbassare le tasse e di portare avanti azioni antisindacali, potendo licenziare dall’oggi al domani, molte industrie del Nord si sono trasferite negli stati del Sud: penso a Toyota, Merceds, Bmw, per restare alla produzione di auto. In Alabama è stato calcolato che nel 1996 ogni posto di lavoro della Mercedes costava 300.000 dollari a quello Stato. Si tratta di ciò che ai tempi del reaganismo veniva chiamata Southern Strategy, che ci ricorda, su diversa scala territoriale, l’autonomia differenziata che sta arrivando in Italia. In pratica, come da noi i veneti non vogliono dare i loro soldi ai calabresi, in Usa i bianchi non vogliono darli per migliorare le condizioni economiche e sociali dei neri.

In questi vent’anni, nei contenuti essenziali delle due diverse edizioni del volume, non sembrano cambiate molte cose. Eppure abbiamo vissuto due mandati di Obama, prima di un altro presidente democratico, Joe Biden. Possibile?
Teniamo presente che gli Usa cambiano a una velocità vertiginosa da un punto di vista visivo (i quartieri, le strade), ma il contrappeso è che le strutture mentali sono straordinariamente stabili, direi immobili. Ma non è vero che la doppia presidenza di Obama sia passata invano, anzi. La sua elezione ha paradossalmente sdoganato il razzismo, e le violenze sono aumentate in modo vertiginoso, tanto avevano eletto un presidente nero... Si sentivano liberati dall’accusa di razzismo, così potevano picchiare e trattare male i neri senza neanche porsi il problema. Da questo punto di vista, alcune dichiarazioni di Trump appaiono inquietanti.

Quali sono?
Beh, mi viene da pensare che un tempo c’erano i comunisti che mangiavano i bambini, mentre ora secondo Trump, come affermato nel confronto televisivo con Kamala Harris, sono i neri di Haiti che mangiano gatti e cani in Ohio. Una dichiarazione significativa, che implicitamente ci dice che negli Stati Uniti non tutti i neri sono uguali tra loro, come d’altra parte i bianchi: un tedesco protestante non è uguale a un irlandese cattolico così come, tra i neri, i jamaicani sono al top della scala sociale, basti pensare a Condoleezza Rice e Colin Powell, o al padre della stessa Kamala Harris, mentre al gradino più basso ci sono i migranti haitiani, neri che più neri non si può. Un ragionamento che evidenzia il razzismo soggiacente che continua a riprodursi negli Usa. Da questo punto di vista, la figura di Trump incarna allo stesso tempo il vecchio razzismo e il nuovo radicalismo di destra.

Siamo a meno di un mese dal voto. Possiamo azzardare una previsione?
No, però possiamo fare un ragionamento: se non ci fosse Trump i repubblicani vincerebbero alla grande, anche perché Kamala Harris è una donna, e negli Usa è più facile eleggere un nero che una donna… Una donna che poi per i neri non è una nera, dato il padre jamaicano di cui sopra, e la mamma di origini indiane. In più Harris è stata un procuratore generale in California di una durezza e un giustizialismo molto pesanti, e la stessa ala liberal del Partito democratico non la ama. A voi le conclusioni.