Alla fine ha vinto Pedro AlmodovarThe Room Next Door conquista il Leone d’oro al Festival di Venezia, per la prima volta il maestro spagnolo a 74 anni vince un festival importante. La giuria di Isabelle Huppert non ha avuto dubbi, la voce che fosse il vincitore si era diffusa già dalla mattina. Un racconto raffinato e potente sull’eutanasia, come lo stesso Pedro ha ricordato dal palco: “Deve essere un diritto per tutti, non un crimine, anche se ad alcune religioni può dare fastidio”, ha detto chiaramente, chiedendo la dignità necessaria per ottenere una “buona morte”. 

La potenza di Maura Delpero

L’altro grande premio è italiano e va a una donna: il Leone d’argento lo vince Maura Delpero con Vermiglio, grande film che ha diffuso la sua forza dalla prima proiezione. La regista, classe 1975 di Bolzano, racconta dell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale in una grande famiglia, seguendo in particolare la parabole di una ragazza che si fa donna. Riconoscimento importante, sia per la nascita di una nuova autrice che per il cinema delle registe, ancora purtroppo in minoranza.

L’opera più ambiziosa, The Brutalist di Brady Corbet, vince il premio per la miglior regia: un pezzo di cinema potente di tre ore e mezzo, serio candidato alla vittoria finale, ma che in questo modo viene comunque riconosciuto. Le Coppe Volpi per migliori attori vanno a Vincent Lindon e Nicole Kidman.

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Il vincitore

The Room Next Door di Almodovar affronta di petto il tema dell’eutanasia: c’è una scrittrice (Julianne Moore) che viene contattata da una vecchia amica malata di tumore (Tilda Swinton), la quale ha deciso di darsi la morte e vuole una mano. L’interruzione della vita è ovviamente illegale, però, e le due si chiudono in una villa per procedere al gesto finale, mettendo in sicurezza sia l’una – stanca di soffrire – sia l’altra per non incappare nell’arresto. Un film magnifico, che raccoglie le forme e i colori del maestro spagnolo, applicandole su un nodo rovente del presente: c’è poco da dire, siamo in zona capolavoro, c’è solo da vedere.

Lindon contro i neofascisti

Il migliore attore è Vincent Lindon, tra i maggiori francesi, per Jouer avec le feu (Giocare col fuoco) di Delphine Coulin, Muriel Coulin. Lindon interpreta un uomo col passato di militanza a sinistra, che ora fa “soltanto” il lavoratore delle ferrovie: quando il figlio maggiore si avvicina all’estrema destra e inizia a frequentare giovani neofascisti, l’uomo decide di intervenire. Film apertamente antifascista, monito sul mostro nero che avanza per la Francia e per l’Europa, alludendo neanche velatamente al fascino malsano del lepenismo sui ragazzi. Grandi applausi in sala, premio giusto.

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Molti temi sociali

La 81ª edizione del Festival di Venezia si conferma evento di primaria importanza, nella sua capacità di coniugare il piacere dell’affabulazione con la riflessione sociale. Anche quest'anno la Mostra si è schierata con una vasta gamma di opere che, attraverso l’estetica, indagano temi di attualità e nodi del presente, con un'attenzione particolare al mondo del lavoro e alle questioni sociali come giovani, donne, nuove guerre. Un programma ricco e pieno che ha saputo coinvolgere il pubblico e la critica, portando sul grande schermo storie di grande intensità e rilevanza. Il concorso principale ha deluso, per la verità, ma oltre le etichette le opere più importati si sono viste disseminate nelle altre sezioni.

Il canto di Wang Bing per il lavoro

Tra i titoli in concorso, spicca Youth: Homecoming di Wang Bing, un documentario che ha lasciato un segno profondo per la sua rappresentazione cruda e autentica della vita dei lavoratori tessili di Zhili, in Cina. Il film, terzo capitolo di una trilogia dedicata il tema, ci porta nel cuore del capitalismo sfrenato immortalando i protagonisti in ogni fase della loro esistenza. Il regista segue il loro ritorno a casa per le vacanze di Capodanno, un momento che diventa simbolo di cambiamento e riflessione, tra scelte cruciali e sogni infranti.

Wang Bing riesce davvero a dare voce a chi resta invisibile, mostrando non solo le difficoltà lavorative, ma anche le aspirazioni e le relazioni umane che si intrecciano in un contesto di grande precarietà. Un’opera imprescindibile per comprendere le dinamiche del capitalismo globale e le sue ricadute sulle vite dei singoli individui.

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Le donne, l’aborto, la dittatura

Sempre in concorso, il film georgiano April di Dea Kulumbegashvili (premio speciale della giuria) racconta il tema dell’aborto. La protagonista è infatti una ginecologa che sceglie di compiere aborti illegali per chi ne ha bisogno, sfuggendo così al controllo dello Stato. Un film d’autore, anzi d’autrice, che conferma lo spessore della regista e inscena la storia forte di una donna. L’altra grande donna in concorso si chiama Fernanda Torres: è l’attrice brasiliana protagonista di I’m still here di Walter Salles (migliore sceneggiatura), nel ruolo di una signora che cerca il marito scomparso. L’uomo è stato risucchiato nel gorgo della dittatura, offrendo così un racconto di denuncia dalla forte valenza politica.

I migranti, l’estrema destra

Il Festival non si limita ovviamente al concorso principale. Nella sezione Settimana della Critica, Anywhere Anytime di Milad Tangshir ha portato sullo schermo la storia di un migrante irregolare che tenta di costruirsi una vita lavorando come rider a Torino. Il furto della sua bicicletta, simbolo iconico del neorealismo italiano, assume qui un significato nuovo e drammatico, riflettendo le difficoltà quotidiane di chi vive ai margini della società. Tangshir offre una visione acuta e profondamente empatica del presente, in un’opera che mescola realismo e poesia per raccontare le sfide del mondo del lavoro attuale.

I documentari hanno avuto anche un’altra carta grossa. Homegrow di Michael Premo ha scatenato dibattiti per il suo ritratto incisivo di tre attivisti dell'estrema destra americana: con uno sguardo lucido e senza pregiudizi, il regista esplora le motivazioni e le contraddizioni di chi si pone fuori dalla democrazia, portando alla luce una realtà inquietante e attuale. Titoli come questo sono cruciali per una riflessione necessaria, per capire chi è davvero l’avversario, anche scrutando nel fondo del pozzo.

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La guerra vista dai russi

Il tema ha trovato ampio spazio. Russians at War di Anastasia Trofimovia e Why War di Amos Gitai affrontano i conflitti contemporanei con approcci diversi ma ugualmente potenti. Trofimovia ci porta sul fronte russo, esplorando le vite dei soldati coinvolti nell'invasione ucraina, mentre Gitai propone un dialogo filosofico tra Freud e Einstein, che diventa una riflessione universale sulla necessità di evitare la guerra. A conferma che il cinema può essere uno strumento potente per comprendere le complessità della geopolitica e dire basta alle armi.

Il senso del festival

In conclusione, il Festival si è confermato uno specchio del cinema oggi e quindi riflesso sul mondo, visto che lo schermo rappresenta la realtà in cui viviamo. E poi, dietro i lustrini della kermesse, va sempre ricordato un particolare: c’è un mondo del lavoro, tutti gli uomini e le donne che operano nel settore cinema. Anche per loro Venezia è una vetrina per rilanciare e rafforzare il comparto, all’insegna di condizioni dignitose.