Cosa accade al lavoro nel momento in cui viene inserito nei dispositivi della società della prestazione? In primo luogo, il lavoro a causa della sua progressiva e crescente precarizzazione perde la capacità di integrare, con una certa stabilità, la soggettività all’interno dello spazio sociale capitalistico. Il lavoro salariato nella società industriale aveva, infatti, da un lato iscritto e normalizzato la soggettività produttiva nell’alveo del capitalismo industriale e dei suoi rigidi processi di produzione, e dall’altro favorito, attraverso la distribuzione di quote crescenti di salario diretto e indiretto, l’integrazione (secondo criteri fortemente gerarchici e differenziali, come specificheremo nel prossimo capitolo) del lavoratore nello sviluppo sociale ed economico fordista (Nicoli, 2015; Chicchi, 2012).

Potremmo dire che l’imperativo performativo che attraversava l’agire economico era vincolato e al contempo stemperato dallo statuto sociale del lavoro. In tal modo l’ingiunzione non ricadeva senza freni, come invece accade oggi, sul corpo del soggetto e sul suo più intimo desiderio, ma si stemperava in una declinazione dispositiva collettivamente organizzata e mediata da compromessi e convenzioni sociali. Il dispositivo fondamentale che aveva istituito tale coerenza è stato senza ombra di dubbio la forma-contratto e in particolare, per quanto riguarda specificamente il contesto della produzione, il contratto di lavoro salariato. In proposito, come ha recentemente ribadito in modo convincente Paolo Perulli (2012), il contratto di lavoro nel capitalismo ha svolto storicamente la funzione di regolare l’incertezza e l’asimmetria della relazione di scambio tra capitale e lavoro e di stabilizzare (seppur solo relativamente), attraverso la definizione di criteri normativi formalmente terzi rispetto alle parti contraenti, i processi di estrazione e distribuzione del valore.

Il contratto in tal senso è stato il modo privilegiato at1traverso cui nel moderno si è ricostruita l’associazione, dopo la crisi irreversibile delle sue fondamenta religiose e comunitarie; non si tratta quindi di un principio secondario ma di un principio necessario e imprescindibile del progetto moderno, che come la sociologia classica ha ben messo in evidenza – pur negandone al contempo l’autosufficienza –, supportava e coordinava in modo nuovo il rapporto tra libertà individuale e obbligo sociale. Il modello del contratto allude a una società ben integrata dal mercato. Il contratto come la città rende liberi, possiamo dire parafrasando Weber. Ciò che il contratto fa è mettere in chiara evidenza i reciprochi obblighi dei contraenti: al di là di essi vige la piena libertà, null’altro ci vincola (Perulli, 2012: 34).

Il lavoro salariato, l’emploi come lo definiva Robert Castel, la sua centralità sociale nella società industriale è quindi stato contemporaneamente il fondamento e l’esito di tale processo. La sua crisi ormai irreversibile, il suo superamento come medium privilegiato del riconoscimento sociale – che si era attuato da un punto di vista materiale attraverso l’istituzione dei sistemi di welfare – apre uno scenario nuovo di drammatica in1certezza sociale e di diffusa precarietà del lavoro e della vita, verso cui occorre muovere con urgenza un nuovo e mirato sforzo di analisi.

La copertina del libro

Il lavoro precario sarebbe dunque, secondo questa chiave interpretativa, la forma privilegiata del lavoro nella società della prestazione, dove la precarietà è soprattutto il frutto della crisi del contratto nella sua dimensione pubblica come dispositivo di regolazione sociale fondamentale dei rapporti tra capitale e lavoro (che catturato in tale forma, come Marx ha evidenziato, de1terminava la libertà illusoria del proletario contraente). Anche se rispetto a tale prospettiva occorre avanzare subito un’ulteriore precisazione: questa accezione di precarietà è infatti molto efficace nel definire uno scenario di confine, o meglio ancora di litorale, tra quello che era il lavoro nella società del soggetto produttivo (Macherey, 2014) e quello che sta diventando nel capitalismo prestazionale e postfordista, ma è forse insufficiente per riuscire a tracciare in positivo i contorni e le emergenze dei nuovi processi di soggettivazione.

Precarietà infatti è un concetto che, sul piano cognitivo, focalizza e richiama per contrasto il dispositivo di stabilità fordista (Nicoli, 2015) che a partire dalla seconda metà degli anni settanta è andato progressivamente a de-istituirsi e a perdere di cogenza normativa.

Le ultime generazioni – i precari di seconda generazione – che entrano o tentano di transitare in un mercato del lavoro già quasi totalmente de1strutturato rispetto alle norme regolative della società salariale, e che quindi non hanno fatto esperienza di1retta dei recenti processi di umiliazione del lavoro che hanno caratterizzato in vivo lo svolgersi delle vite professionali dei loro genitori, sono ancora disponibili a interpretare e definire la loro condizione sociale a partire da un concetto di precarietà primariamente inteso come mutilazione e privazione? Se gli stessi individui rappresentano oggi la forma e la qualità del lavoro secondo criteri fortemente modificati rispetto al recente passato, quali sono le principali caratteristi1che soggettive del lavoro che si precisano per lo più al di fuori o in tangenza alla convenzione salariale?

Per rispondere a tale domanda bisogna innanzi1tutto cominciare a circoscrivere i processi fondamentali attorno ai quali sono venute a precipitare le nuove qualità del lavoro nella società della prestazione. A nostro avviso è in proposito possibile indicare tre fonda1mentali processi, su cui sarà necessario soffermarsi, seppur brevemente, nelle pagine che seguono: a) la cognitivizzazione del lavoro; b) l’imprenditorializzazione del lavoro; c) la diffusione del lavoro (o detta marxianamente: il farsi poroso e permeabile del confine tra la sfera della produzione e la sfera della riproduzione sociale).