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I film girati nei cantieri, con protagonisti operai e muratori, percorrono la Storia del cinema fin dalle origini. Ma emergono soprattutto nella modernità, quando la cinepresa inizia a denunciare le condizioni del lavoro edilizio attraverso la sua messa in scena.
È il caso di un classico sempre poco citato, Cristo tra i muratori (1949) di Edward Dmytryk. Nell'America degli anni Venti il protagonista Geremia, migrante italiano, va in cerca di occupazione. Dopo una storia d'amore con una ragazza americana finirà per sposarsi con una sua connazionale, Annunziata, migrante come lui: i due avranno due figli ma non un domicilio stabile. Geremia inizia allora a lavorare in nero come muratore nei cantieri edili, scoprendo un sottobosco di salari da fame e senza sicurezza. Un'opera che riesce in un doppio obiettivo: da una parte rappresenta la parabola di un immigrato italiano, che si trova in minoranza in una terra straniera e inospitale (infatti è senza casa), dall'altra porta alla luce le condizioni di lavoro dell'epoca, lontane da ogni diritto o contratto.
È un cantiere anche quello di Nel fango della periferia (1957) di Martin Ritt, regista a forte vocazione sociale a cui si dovrà anche l'operaia tessile Norma Rae alla fine degli anni Settanta. Qui invece costruisce un caso raro nella storia: film operaio con due attori d'eccezione, John Cassavetes e Sidney Poitier, è ambientato in un cantiere navale che occupa i due come scaricatori. Il primo bianco, l'altro nero, stringeranno un'amicizia peculiare soprattutto per difendersi dal crudele caporeparto: ma l'american dream non abita qui, è dura la vita operaia degli anni Cinquanta e la tragedia dietro l'angolo. Il regista inscena una forte solidarietà maschile proprio per suggerirne la dissoluzione, per colpa del luogo di lavoro.
Siamo dentro un cantiere anche con Fronte del porto (1954), girato negli stessi anni da Elia Kazan. Nella dura rappresentazione del lavoro alle banchine, dominate da padroni-mafiosi, si innesta la parabola del Terry incarnato da Marlon Brando, nel ruolo dello scaricatore di porto che all'epoca consolidò la sua fama. Il regista dei cantieri navali della contemporaneità ha un nome preciso: Robert Guédiguien. Colui che ha descritto da ogni angolazione uno dei maggiori cantieri europei: il porto di Marsiglia. Presente in tutti i suoi film, in modo frontale oppure implicito, il vasto e tentacolare ambiente avvolge i personaggi, in grado di attrarli o respingerli.
Come ne Le nevi del Kilimangiaro (2011): il cantiere è in crisi e gli operai estraggono a sorte i numeri per decidere chi andrà in cassa integrazione. Anche Abdellatif Kechiche fa cinema in cantiere, nel film che l'ha imposto al grande pubblico, Cous Cous (2007): il sessantenne Slimane lavora nel porto di Sète e perde l'occupazione per una crudele riorganizzazione che taglia i più anziani. È allora che tenterà di aprire un ristorante galleggiante per garantire il sostentamento della sua grande famiglia araba.
C'è un film che ricorda molto Riff-Raff, ne è l'ideale continuazione: Dernier Maquis (2008) di Rabah Ameur-Zaïmeche, considerato - non a caso - "il Ken Loach algerino". Quasi interamente girato dentro un cantiere, è una radiografia sull'esistenza degli immigrati franco-algerini, che comprende il problema dei diritti dei lavoratori esattamente come quello della fede religiosa e dell'integrazione sul nuovo territorio. Alla Loach, appunto, con la ricchezza della provenienza algerina del regista che arricchisce la questione di nuove e inedite sfumature. Finora inedito in Italia, da poco è disponibile sulla piattaforma Mubi.
(Foto: Sidney Poitier in Nel fango della periferia, Martin Ritt, 1957)