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“Non mi mettete in difficoltà”. Questo ha detto una conduttrice della televisione pubblica, dopo che uno dei più famosi cantanti italiani, Dargen D’Amico, aveva fatto notare che i migranti riversano nelle nostre casse pensionistiche cifre molto maggiori dei costi per l’accoglienza. Un episodio piccolo, inutile e triste che serve per ricordarsi come in Italia parlare di migranti sia considerato inopportuno: anche e soprattutto per questo è importante l’uscita al cinema di Green Border, il film di Agniezska Holland dall’8 febbraio nelle sale italiane.
Il film della più importante regista polacca in attività, oggi 75 anni, arriva dopo la vittoria del Premio speciale della giuria all’ultimo Festival di Venezia, dove è stato un plausibile candidato al Leone d’oro, poi andato a Povere creature! di Lanthimos.
Il “confine verde” del titolo è quello tra Bielorussia e Polonia: non il consueto checkpoint con i militari dentro la città, bensì un’immensa foresta paludosa. Qui si sta consumando una tragedia che non conosce nessuno. Migliaia di rifugiati si trovano intrappolati una crisi geopolitica organizzata ad arte dal dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko, il migliore amico di Putin.
Nel 2021 egli attirò sul confine un’ondata di profughi provenienti da diversi Paesi, soprattutto Afghanistan, Siria, Iraq, Yemen e Congo. Attraverso un’opera di propaganda veniva fatto credere che avrebbero potuto facilmente varcare la frontiera per ritrovarsi in un paradiso ricco e democratico, l’Unione europea. A loro volta le autorità polacche li dipinsero alla popolazione come una minaccia: i rifugiati che venivano catturati dall’altra parte erano respinti in Bielorussia, dove ad attenderli c’erano solo torture, oppure lasciati nella terra di nessuno attorno al confine, detta la “zona della morte”. Di nome e di fatto: la maggioranza è morta di stenti nei boschi o annegata nelle paludi.
Questa la dinamica della “strage perfetta”, che pone i migranti tra due fuochi: da una parte la polizia bielorussa che li spinge verso il confine spinato, usandoli come proiettili contro la Ue, dall’altra le guardie polacche che li respingono e non esitano a sparare. Un ping pong umano che fa gelare il sangue. Per raccontarlo Agniezska Holland adotta una tripla prospettiva: c’è una famiglia di rifugiati siriani che tenta di passare la linea; una giovane guardia di frontiera posta di fronte al massacro, con le conseguenze etiche che implica; una donna di mezza età che non riesce a sopportare la situazione e impugna l’arma dell’impegno, diventano un’attivista.
Tre sguardi si intrecciano nell’arco di 147 minuti, si prendono e si lasciano tra loro, nell’intento di ricostruire la totalità di una storia attraverso l’unione dei frammenti. Nell’economia drammaturgica, come sempre, lo scenario insostenibile instilla dubbi morali in chi lo compie, qui l’agente di confine, carico di tutta l’ambiguità che si addice agli esecutori dei regimi.
Ma ciò che resta negli occhi, inutile negarlo, è la sostanza del massacro: donne, bambini, malati e anziani subiscono torture inaudite, le ragazze vengono stuprate. Altri muoiono di fame o sete. Tutto vero. Il film non risparmia nulla: costruisce un racconto polifonico di rigido realismo e guarda in faccia l’orrore, senza sbattere le palpebre, convinto evidentemente che sia l’ora di vedere, senza più fare finta di nulla. Una storia naturalista che riproduce il reale, in bianco e nero, ma che sfiora anche l’horror perdendosi nelle sfumature di nero del bosco, perché in fondo di racconto dell’orrore si tratta.
La regista aveva girato Europa Europa nel 1990, storia di un giovane ebreo che doveva fingersi nazista per sopravvivere. E storia, anche, della doppia Europa del titolo, quella che culla grandi ambizioni di progresso e quella che genera dittature e atrocità. Quasi trentacinque anni dopo, per interposta tragedia torna sul tema e continua a parlare chiaro: “Il rispetto del diritto di asilo si è gradualmente eroso fino a essere completamente ignorato dall’Unione europea che si è trasformata in una fortezza, mentre i suoi nemici – come Putin e Lukashenko – usano la miseria dei rifugiati in fuga dai conflitti come una sorta di arma ibrida”.
Un film che ci mette in difficoltà, anche in Italia oggi, basta spegnere la televisione e andare al cinema senza ascoltare le veline dei governi.