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Il 18 maggio del 1939 nasce a Palermo Giovanni Falcone, una delle personalità più importanti e prestigiose nella lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale, ucciso da Cosa nostra insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta. Nel 1965, a soli 26 anni, Falcone diventa pretore a Lentini.
Uno dei primi casi su cui indagherà sarà quello di una persona morta per un incidente sul lavoro. Nel 1967 istruisce il suo primo processo importante, quello alla banda mafiosa del boss di Marsala, Mariano Licari. “Il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose - diceva nel 1982 - è costituito dalle tracce che lasciano dietro di sé i grandi movimenti di denaro connessi alle attività illecite più lucrose. Lo sviluppo di queste tracce, attraverso un’indagine patrimoniale che segua il flusso di denaro proveniente dai traffici illeciti, è quindi la strada maestra, l’aspetto decisamente da privilegiare nelle investigazioni in materia di mafia, perché è quello che maggiormente consente agli inquirenti di costruire un reticolo di prove obiettive, documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriere di conferme e riscontri ai dati emergenti dall'attività probatoria di tipo tradizionale diretta all'immediato accertamento della consumazione di delitti”.
Il progetto del cosiddetto pool antimafia si realizza nel novembre del 1983 attraverso la costituzione di una squadra composta da quattro magistrati istruttori (oltre a Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta) con lo specifico compito di coordinare tutte le indagini su reati di mafia, esclusivamente e a tempo pieno.
Una vera e propria svolta epocale alla lotta alla mafia in Sicilia verrà impressa con l’arresto di Tommaso Buscetta. “L’avverto, signor giudice - dirà - Dopo quest'interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”.
Inizia l’interrogatorio. Il primo di una lunga serie. La prima di una serie di azioni ed indagini che a Falcone costeranno la vita. “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande - diceva lui stesso - Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
Il 23 maggio 1992 si consuma la strage di Capaci. Quel pomeriggio l’auto di Giovanni Falcone sfreccia lungo l’autostrada A29. La precede la Croma marrone degli uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. È quella la prima auto a saltare in aria alle 17.57. Anche la Fiat su cui viaggiano i due magistrati, Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, viene investita dall’esplosione. Si salva l’autista e si salvano gli agenti della terza automobile.
Il 25 maggio, mentre lo Stato elegge a Roma Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica, nella chiesa di San Domenico a Palermo si svolgono i funerali delle vittime. “Piove sul dolore - scriverà Repubblica - sulla rabbia, sull’indifferenza, sulla rassegnazione dei palermitani. Nel giorno dei funerali di Giovanni Falcone, di sua moglie e della sua scorta, la città ha un volto livido, dimesso, irreale. Piazza San Domenico è gremita. Migliaia di persone sotto un diluvio scrosciante, gli ombrelli aperti, i capelli bagnati, le lacrime, le urla, i fischi. Applausi ai morti, insulti ai vivi. (…) Tutto e il contrario di tutto. Sui muri ingialliscono ancora i manifesti del Comune per Salvo Lima, ‘barbaramente assassinato’. Pochi centimetri accanto, Cgil-Cisl-Uil esprimono cordoglio per il giudice antimafia e le altre vittime”.
“Sono stati giorni molto tristi - annotava il 28 maggio Bruno Trentin sul suo diario - Il 23 maggio ad Amelia apprendo con Marie l’assassinio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca e dei ragazzi della sua scorta. Sembra assurdo e incredibile e tanto più incredibile perché si trattava della puntuale verifica di uno dei suoi teoremi: “quando uno è solo è delegittimato”. Mi ritornano alla mente tutti i nostri incontri, con insistenza ossessiva, giorno e notte. I giorni di San Candido. La cena alla Enzian Hutte con Francesca e suo fratello, con Giovanni in grande forma e lucidità. I suoi commenti amari sull’uccisione del Procuratore della Cassazione, in Calabria (…). Lunedì 25 mi ritrovo a Palermo, come in un sogno, ai suoi funerali”.
“Giovanni sapeva di dovere morire - scriveranno in tanti - Ma gli è toccato morire con l’amarezza di essere lasciato solo”.