Gianni Toti non ha avuto eredi nel mondo dell'informazione della Cgil. Ha avuto molti “nipotini” che hanno tentato, ma con minore inventiva e coraggio, di ripetere il suo modello di giornale aperto, di magazine popolare che oggi, con pochissime eccezioni, è scomparso dal panorama dell'editoria italiana ma che fu imperante per tutta la seconda metà del secolo scorso.

Inviato a “Vie Nuove”

Dopo le dimissioni dalla direzione di “Lavoro”, Toti continuò per un decennio a fare il giornalista, da inviato principe di “Vie Nuove”, il settimanale comunista che da molti era stato visto come il diretto antagonista del periodico della Cgil e che, in effetti, sembrò averne ripreso molti degli spunti più nuovi.

Il Toti di “Vie Nuove” è l'inviato delle grandi inchieste all'estero, a Cuba, in Brasile, nel Vietnam degli anni della guerra, dove passò peripezie di ogni genere dando prove non scontate di coraggio e, soprattutto, cercando sempre di dialogare con le culture con cui veniva a contatto: si deve a lui – ricorda oggi Tommaso Di Francesco, giornalista che mosse i primi passi collaborando con Toti nella redazione di “Carte segrete” – se in Italia venne tradotto e pubblicato il poema fondante la letteratura vietnamita moderna, “Kim Van Kieu” del poeta del diciottesimo secolo Nguyen Du, di cui Toti scrisse, anche qui in una inusuale forma dialogica, l'introduzione alla prima edizione italiana.

“Carte segrete” e la poetronica

Di “Carte segrete”, una rivista di avanguardia dalla indimenticabile copertina di cartone da imballaggio che uscì dal 1967 al 1987, Gianni Toti fu ben più del vicedirettore tramandato nelle gerenze, ma un pari grado di Domenico Iavarone, il direttore ufficiale. I numeri della rivista, con l'ampio spettro di interessi artistici, filosofici, sociali, che la caratterizzano, sono il termometro dell'incandescente ricerca a tutto campo in cui Toti si impegna, ormai proiettato in un progetto di rivoluzione totale del linguaggio letterario.

Si può dire che “Carte segrete” sia il ponte di passaggio tra il Toti giornalista e il Toti fondatore della “poetronica”, un termine che definisce la poesia rinnovata con l'innesto dell'elettronica, il cui manufatto artistico più maturo si rivelerà nelle “VideoPoemOpere”, “sintesi - scrivono Sandra Lischi e Silvia Moretti nel volume “Gianni Toti o della poetronica” (Edizioni ETS, La Casa Totiana 2024) - di linguaggi musicali, immaginativi e poetici che le caratterizzano opere d'arte totali”.

Due vite legate da un nesso?

C'è un punto, però, che resta imprecisato, una domanda trascurata e spesso nemmeno posta per il peso che nell'opera totiana ha assunto la sua sperimentazione di tutte le scritture (compresa la cinematografica con il visionario non film “E di Shaul” presentato alle giornate del cinema di Venezia del 1973) e la loro utilizzazione contemporanea, “sinestetica”: quale sia il rapporto tra questo Toti e il Toti giornalista dei venticinque anni precedenti. L'interrogativo è ancora aperto, perché poco o nulla del primo Toti lascia indovinare i tragitti e gli approdi del secondo Toti poetronico e videoartista.

La fine del sogno comunista

Una ipotesi, che non è ancora una risposta, è però possibile avanzarla, mettendo insieme gli spunti raccolti nel convegno che ne ha ricordato l'intera opera, svoltosi ad Alatri su iniziativa della Biblioteca Totiana lo scorso 18 ottobre. Il poeta e performer Marco Palladini ha parlato di un Toti che vive come un dramma la fine dell'utopia comunista, che egli – aggiungiamo noi - aveva peraltro guardato in faccia, con sgomento e in silenzio ma senza gli occhiali deformati dal giustificazionismo ideologico, nei “fatti” di Budapest del 1956 e di Praga del 1968.

E il sogno di una “parola nuova”

Chiara Portesine, giovanissima studiosa di poesia sperimentale del secondo Novecento, ha individuato l'essenza della lunga sperimentazione totiana nella ricerca di un linguaggio “totale”. Potremmo allora concludere che riscontrata, drammaticamente, l'impossibilità di modellare l'uomo nuovo, Gianni Toti abbia deciso di elaborare il lutto investendo la sua prorompente energia intellettuale nella costruzione di un altro progetto definitivo: un'utopia assoluta che riempisse il grande vuoto lasciato dalla prima e che gli fa sognare l'avvento di una “parola nuova” capace di restituire, con la sua forza eversiva, autenticità al mondo e alle sue rappresentazioni.