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Torna in scena dal 20 ottobre Figlio, non sei più giglio, lo spettacolo con Mariella Nava e Daniela Poggi, scritto e diretto da Stefania Porrino. Un racconto a due voci sulla violenza di genere, ma con un punto di vista inedito. A parlare è la madre dell’uomo violento, che si interroga su un passato da comprendere e un presente doloroso. La metafora di una società intera che troppo spesso non sa farsi domande scomode. Dietro un femminicida ci sono una storia, una cultura, un contesto sociale che vanno interpretati e cambiati, se si vuole davvero prevenire la violenza. Lo spettacolo, che ha debuttato nella scorsa stagione, riprende la tournée.
Daniela Poggi, come sono nati lo spettacolo e l’incontro con Mariella Nava e Stefania Porrino?
Desideravo da tanto tempo lavorare con Mariella Nava, l’ho sempre sentita un’artista affine a me. Stefania Porrino è una carissima amica autrice, con la quale avevo condiviso il mio desiderio profondo di lavorare sul tema della violenza di genere. Con Mariella ci ha fatte incontrare Chiara Giuria Cortese, che si occupa della promozione e distribuzione. Io sentivo fortemente che non volevo fare un monologo, non volevo stare da sola sul palco, e mi piaceva l’idea che ci fosse una cantautrice con me. Quando ci siamo incontrate ho condiviso con loro la mia idea di non portare in scena una donna che ha subito violenza, viva o purtroppo morta. Io volevo portare in scena il dolore di un’altra donna: la madre che ha partorito quell’uomo violento. Mi interessava molto capire la genesi del percorso che può portare un uomo a diventare un femminicida.
Il teatro è il luogo dove si portano in scena i conflitti. Da attrice, ha scelto di mettersi nei panni di un personaggio “scomodo”. Com’è stato?
Con questo spettacolo noi vorremmo sollecitare un pensiero critico, fastidioso, anche un po’ sconcertante forse. Magari si tende a pensare di sé stesse: “Non io, io sono perfetta come madre, io non sbaglio, mio figlio non lo farebbe mai”. Spesso capita di leggere dichiarazioni di genitori, a posteriori di un crimine, che si dichiarano sconvolti rispetto a quanto il proprio figlio ha commesso. “Non può essere, non è lui che ha sbagliato, è la società”. Come si fa ad accettare che tuo figlio, il figlio che tu hai generato, il frutto dei tuoi geni, abbia potuto fare ciò che ha fatto? Ma proprio perché è il tuo frutto, dovrebbe essere importante capire perché un figlio diventa un persona violenta, capace di uccidere un altro essere umano.
“I frutti puri impazziscono”, scriveva l’antropologo James Clifford. Ma se sbatti il mostro in prima pagina e finisce lì, come si fa a lavorare sulla prevenzione, sull’educazione
Esattamente. A un certo punto dello spettacolo, parlando da madre al mio figlio immaginario, gli dico: “Avrei potuto guardarti di più negli occhi, avrei potuto capire i tuoi silenzi, i tuoi gesti, capire che c’era un malessere”. Chi erano queste persone prima del gesto che hanno compiuto? Come vivevano tra le quattro mura di casa? Da dove vengono, qual è il loro vissuto? Da genitore, mettere in discussione il proprio percorso è un modo per prendersi le proprie responsabilità. Tutta la società è colpevole quando accadono simili tragedie. Una società dove ognuno vive chiuso nel suo silenzio, trincerato dietro a uno schermo. Solo se interpellati interveniamo. Bisognerebbe chiedersi più spesso chi sono le persone che vivono e abitano intorno a noi, e invece non ci interessa, non ci vogliamo entrare, abbiamo già ognuno i suoi problemi. E giriamo la testa dall’altra parte, senza alcun senso di solidarietà e della collettività. A un certo punto dello spettacolo, la madre cerca suo figlio e lo trova mentre tortura una lucertola, tagliandole la coda. Lì c’è un seme di violenza, che poi cresce e diventa sempre più forte.
Il vostro testo offre molti spunti anche per riflettere su come i modelli culturali e educativi incidano sul tema della violenza di genere.
Viviamo in un momento di forte crisi da questo punto di vista. Le donne di oggi sono diverse da quelle di ieri: sono imprenditrici, madri, casalinghe, mogli, lavoratrici. Tanti ruoli tenuti insieme con estrema fatica, ma anche con grande capacità. L’uomo a volte non riesce ad accettarlo, ad accettare che la donna sia compiuta in sé, che possa fare tutto da sola. Oltre a ciò, c’è il fatto che la società continua a dire agli uomini che devono essere forti, devono agire e reagire. E invece la fragilità è di tutti, ed è un valore, essere fragili vuol dire essere vivi. Dopo di che, dobbiamo dire che il modello culturale e politico dominante resta sempre quello patriarcale. Io, uomo, sono bravo, io sono potente. Gli uomini fanno ancora molta più fatica delle donne a intraprendere percorsi di psicoterapia, dove indaghi te stesso, ti metti in dubbio, ti fai domande scomode. E poi c’è da dire che nella cultura italiana è ancora molto resistente il modello di madre che ha un rapporto simbiotico con il figlio maschio, un cordone ombelicale più difficile da recidere che nel caso di una figlia femmina. I figli maschi sono sempre più belli, più bravi. E allora noi con lo spettacolo proviamo a chiederci se, nel caso della violenza di genere, non ci sia anche questa componente psicologica profonda: ci siamo chiesti se uccidendo la propria donna non si voglia, in realtà, uccidere la propria madre. Il problema è che questa domanda non si può fare, non se ne può parlare, perché è come se si offendesse una certa sacralità.
Siete già andate in scena la scorsa stagione. Ci sono stati, a fine replica, dei feedback, degli incontri che le sono rimasti nel cuore?
Devo dire che ci capitano spesso delle standing ovation, gli spettatori ci ringraziano, ci suggeriscono di portarlo nelle scuole. Più di qualcuno alla fine ci ha detto: “Voglio andare a casa e abbracciare mio figlio, voglio guardarlo negli occhi”. Questa è una delle parti più potenti dello spettacolo, quando chiedo al mio figlio virtuale se avesse guardato negli occhi la donna che stava uccidendo, se l’avesse guardata mentre urlava, mentre la colpiva. Il nostro è un invito a guardarsi negli occhi, a guardare negli occhi i propri figli. Spesso, a fine replica, ci sono abbracci, ci sono lacrime e tanta commozione. E il teatro in fondo non è altro che questo: non risolviamo i problemi, ma possiamo lanciare dei semi. La potenza del teatro è esattamente questa: per quel tempo, non esiste altro. Da spettatore ne sei assorbito o – seppur passivamente – lo sorbisci. In ogni caso, ti lascia un segno.