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Il termine «femminicidio» deriva dallo spagnolo «feminicidio» e definisce, ovviamente, gli omicidi delle donne da parte degli uomini, avvenuti proprio per il fatto di essere donne, ponendo in evidenza soprattutto gli aspetti sociologici della violenza e le implicazioni politico-sociali del fenomeno.
Per Marcela Lagarde il femminicidio esprime «la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotta dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia».
Attualmente una delle definizioni più utilizzate è quella proposta dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, tra cui l’uccisione di una donna da parte di un partner intimo e la morte di una donna a seguito di una pratica dannosa per le donne. Per partner intimo si intende l’ex o l’attuale coniuge o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima...
...Il femminicidio, è bene evidenziarlo, non è mai l’esito tragico di un raptus, un fatto imprevedibile e isolato che accade all’improvviso, ma è l’atto finale di una serie di atteggiamenti violenti che talvolta cominciano con l’inizio stesso della relazione, magari travestiti da affermazioni apparentemente innocue, scambiate per eccesso di attenzioni e accudimento.
Il femminicidio individua, pertanto, una responsabilità specifica della società che non si allontana dal proporre anche oggi quel mo-dello socio-culturale patriarcale in cui la donna è un oggetto discriminabile, violabile, uccidibile. Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna, l’estremizzazione di condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere che troppo spesso operano nella silenziosa complicità e colpevolezza delle famiglie d’origine di questi maschi, che non hanno saputo distaccarsi dal replicare modelli di «vita di coppia» improntati sulla violenza e sulla sottomissione della donna. Uomini narcisisti che vivono come tradimento in senso lato, e ferita narcisistica, la presunta «libertà» della compagna: indipendenza e quindi libertà che vanno limitate sempre di più fino alla punizione estrema, che è l’eliminazione della donna stessa.
La violenza di genere, quindi, è sempre l’esito drammatico della concezione patriarcale della società e di quella mentalità, forte-mente radicata, che continua a enfatizzare e diffondere una visione degradante del ruolo della donna, ancora vittima di discriminazioni in ambito familiare, sociale e lavorativo.
Di fronte alla violenza di genere occorre però fare chiarezza: a provocarla non è la gelosia, non sono i tradimenti. Non è la separazione e non è il divorzio. Non sono i piatti cucinati male né una gonna troppo corta. Non è l’ennesimo paio di scarpe acquistato e neppure una camicia stirata male. Non è il bimbo che piange e nemmeno quello che fa troppi capricci. Non è il lavoro che non c’è e nemmeno il lavoro che è troppo. Quando un uomo uccide una donna è un atto criminale che ha l’unica genesi nella storia di quell’uomo e nella cultura patriarcale sopra riferita…
…Quando la realtà appare in tutta la sua crudezza e inizia a far paura, dire «basta» può essere molto difficile: all’inizio è un’invocazione che si fa a sé stesse, quasi a bassa voce per timore delle conseguenze, ma col tempo la paura può lasciare il posto alla speranza e al coraggio che questa porta con sé. Per molte donne questo «risveglio» ha determinato l’inizio di una nuova vita.
Per alcune, troppe, questo coraggio è stato fatale conducendole alla morte per mano di un uomo. Nel nostro Paese, nel 2022, si sono registrate 125 vittime, una donna ogni tre giorni. Di queste vittime, il 5% erano minorenni, 103 donne sono state uccise in ambito familiare, più della maggioranza di esse uccise dal partner o ex partner.
E proprio poiché quasi nessun caso di femminicidio è privo di segnali, ma l’esito di litigi violenti, urla e botte, dovremmo interrogarci sulla troppa disattenzione o addirittura indifferenza di parenti, amici, vicini di casa. Come già evidenziato nessun fattore scatenante si manifesta all’improvviso e spesso si tratta di morti ampiamente annunciate. Bisogna coltivare il valore della «sensibilità solidale», intervenendo in caso di urla provenienti dall’appartamento accanto, per esempio. Ancora, occorre superare l’indifferenza e consigliare al collega d’ufficio particolarmente irascibile di farsi aiutare. Occorre sempre accertarsi che sia stato fatto questo passo, perché chi non controlla la rabbia in ufficio, difficilmente sa controllarla a casa. Tanto altro si può e si deve fare, ma che si faccia, e in fretta, perché già sono troppe le vittime.