PHOTO
Insediandosi in Parlamento diceva Giuseppe Di Vittorio nel 1921: “Onorevoli colleghi, questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: “Un cafone in Parlamento…”. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto”.
Sempre Di Vittorio affermava in occasione del secondo Congresso nazionale della cultura popolare (il primo Congresso si era tenuto a Milano, nella sede del Castello Sforzesco, il 7 e l’8 dicembre 1946; il terzo Congresso si terrà a Livorno dal 6 all’8 gennaio 1956, relatori Norberto Bobbio, Tommaso Fiore e Giulio Trevisani)
Amici congressisti sono lieto di salutare questo grande congresso, che ha già avuto una profonda eco nel paese ed è destinato ad avere vaste ripercussioni nelle masse popolari per quanto concerne lo sviluppo della cultura nel popolo, in nome della Confederazione generale italiana del lavoro e dei cinque milioni di lavoratori manuali e intellettuali che vi sono iscritti (…) Ma prima di questo - prosegue Di Vittorio - permettetemi di accennare ad una certa ironia che è stata fatta da alcuni giornali sul mio intervento con un discorso a questo congresso della cultura popolare italiana (…) Per rendere a suo modo chiaro il significato della mia presenza a questo congresso, un giornale ha scritto una frase appositamente sgrammaticata per dire: 'Ecco qualcuno che è veramente rappresentativo di coloro che non conoscono la lingua italiana e che sono al fondo dell’ignoranza al congresso della cultura popolare'. Lo scopo è di tentare di rappresentare come estremamente basso il livello culturale di questo congresso della cultura popolare. Lo scopo è anche un altro, al quale accennerò brevemente. Bisogna che io dica che in questa ironia di giornali benpensanti, di giornali che esprimono gli interessi della classe privilegiata e dirigente della nostra società, c’è qualche cosa di fondato. Io effettivamente non sono e non ho mai preteso, non pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura popolare o non popolare. Però sono rappresentativo di qualche cosa. E di che cosa sono rappresentativo? Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere del nostro paese… quelle masse cioè alle quali le strutture sociali ingiuste ed inumane della nostra società negano la possibilità non solo della cultura, ma anche dell’istruzione elementare, e che ciò malgrado, però, vogliono, si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado che le loro capacità, le loro possibilità permettono di raggiungere, grado modesto ma che apre però la strada a nuovi e travolgenti progressi. Di questi strati delle masse popolari umili e povere io sono rappresentativo.
Perché la cultura è, e deve tornare ad essere, esattamente questo: uno strumento di emancipazione, di integrazione, dialogo, valorizzazione, sviluppo, coesione sociale. “Istruitevi - diceva Antonio Gramsci - perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. “Vorrei che tutti leggessero - affermava il maestro per eccellenza, Gianni Rodari - non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”.
La cultura rende liberi perché ci permette di pensare con la nostra testa, perché fa in modo che i nostri pensieri non si fermino alle apparenze, non siano superficiali. In un mondo infestato dalle fake news sulla politica, sulla salute, su ogni ogni singolo aspetto della nostra vita, ciò di cui più di ogni cosa in questo momento l’essere umano ha bisogno è di allenare la sua capacità di discernimento, di autovalutazione. Abbiamo bisogno di cultura. Una cultura messa a dura prova dalla pandemia e dal lockdown. Ma mai come oggi universalmente a disposizione di chi chiunque voglia accedere al sapere. Istruiamoci, perché abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza, oggi come non mai.