questa notte vi ho rivisti tutti/ splendidamente vivi/ ritornammo a rivedere/ tutti gli orrori di quel reparto ridendo
LDR, L’iddio ridente (58, 2008) 
                                         

In una delle lezioni berlinesi poi rifuse nell’Estetica, Hegel afferma che è specifico della poesia tramutare una coscienza disgregata nella compiutezza, viceversa, di una parola finalmente riscattata dai propri interdetti. Nonostante gli studi irregolari e presto interrotti, era un grande lettore di Hegel, anzi un affiliato al pensiero dialettico, quel Luigi Di Ruscio il cui esordio è un’aspra secessione neorealista, Non possiamo abituarci a morire (1953), la quale inaugura un percorso costellato da una decina di titoli fra raccolte e plaquettes che realizzano l’architettura di un ininterrotto poema, oltre mezzo secolo di versi infine selezionati nel volume delle Poesie scelte 1953-2010 (Marcos y Marcos 2019) nella limpida curatela di Massimo Gezzi. 

E infatti quella totalità poetica deriva non tanto da una generica disgregazione quanto da una almeno duplice parzialità, in termini geografici e storico-sociali. È relativamente meno importante che Di Ruscio sia un autodidatta (dirà, ovviamente mentendo, di avere letto appena Ungaretti, Pavese e pochi altri) estraneo ai gruppi e alle poetiche dominanti (da un lato gli eredi dell’ermetismo o Grande Stile, dall’altro gli adepti delle nuove avanguardie), mentre è molto rilevante la particolarità del suo status: è infatti un poeta italiano che scrive a Oslo fra persone, in fabbrica e in famiglia, che ne ignorano la lingua e, nello stesso tempo, è dal ‘57 un immigrato assunto nella fabbrica fordista le cui mansioni, per quasi mezzo secolo, non derogheranno dalla catena di montaggio. 

Down and out, è stato detto a proposito della sua condizione, vale a dire una marginalità che si coniuga ad una subalternità: “chiudere un porco vero nel reparto/ non un porco normale/ un porco insomma un maiale insomma chiuderlo nel reparto per otto ore/ vediamo come reagisce l’associazione protezione animali/ vediamo come reagisce a questa estrema crudeltà il maiale” (Istruzioni per l’uso della repressione, LXXI, 1980).

Una necessaria, ossessiva, monotonia caratterizza l’opera poetica di Di Ruscio che, celiando nel corso di un’intervista, ha voluto differenziarla dalle prose di romanzo limitandosi a dire che l’una va per le corte mentre l’altra per le lunghe. Fatto sta che, caso più unico che raro nel Novecento, la sua poesia ignora la metafora e la ricercatezza delle figure retoriche. Si tratta di una scelta molto precisa che punta alla essenzialità e all’urgenza del dire in uno stile scabro che parla direttamente al lettore e gli si rivolge sempre ad altezza d’uomo: il poeta non ha da comunicargli se non la tragedia di volersi un essere umano dentro un universo, la realtà del neocapitalismo, che invece valorizza gli individui soltanto come entità fungibili, espropriabili e permutabili. 

La poesia di Di Ruscio testimonia, per così dire in re, che il neocapitalismo non produce solo merci ma rapporti umani e, nel qual caso, rapporti perfettamente disumanizzati e reificati. (Presentandone il secondo libro, Le streghe s’arrotano le dentiere, ’66, un altro dei suoi sceltissimi mallevadori, Salvatore Quasimodo, scrisse che il contesto naturale della sua poesia era il mondo dominato dal Leviatano, secondo l’emblema di Hobbes. E va da sé che il Leviatano contemporaneo è il mondo a immagine e somiglianza della fabbrica neocapitalista). 

Ogni ornamento poetico, dunque, distoglierebbe da tale verità e pertanto la iterazione, il ripetere salmodiando, è la figura-chiave di versi che convergono tutti nella messa a fuoco di una verità elementare, imprescindibile: diventare poeta vuol dire semplicemente diventare un uomo, o viceversa. Se lo stile è ruvido, scabro, la materia linguistica è altrettanto elementare perché non vi esistono aggettivi ma per lo più nomi e verbi, il che vuol dire che il poeta fermano non persegue gesti contemplativi ma attivi e sempre nella forma di un pensiero al lavoro. 

Non è il culto della ‘parola’ ad intrigarlo, ma le commessure della frase e del periodo, non la bellezza localizzata ma estesa e pulsante nella frase: è questo un tratto riflessivo, di “pensiero poetante” secondo la definizione di Antonio Prete, che lo avvicina all’improba, sempre minoritaria, lezione di Leopardi. La metrica, con un verso disteso e frontale, asseconda il ritmo del pensare medesimo mentre il tema è uno solo e non potrebbe essere diversamente da parte di un uomo cui è toccato vivere in contemporanea la condizione di subalterno e spatriato, è il tema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’asservimento ad una macchina che non gli appartiene, della umiliazione ammutolita e della solitudine disperata che di regola ne conseguono: “uscire dalla fabbrica era come uscire da una guerra/ dove si esce vivi solo per caso/ (…)/ il polacco dice che lavorare/ per l’avvenire sotto i comunisti era ancora peggio/ qualche macchina ferma sembra una cassa da morto/ per chi sta veramente male/ mettersi sotto cassa malattia è difficile/ di questo italiano straniero non sappiamo niente/ si sa solo che puzza ed esiste” (L’ultima raccolta, CCCXIV, 2002).

La poesia, per Di Ruscio, non è mai lo scrigno in cui serbare in esclusiva una propria personale verità. Essa, piuttosto, è un pane condiviso tra simili, un punto di incontro e talora di aspro conflitto, un luogo di resistenza così come di umana sopravvivenza. In uno dei vertici espressivi, la poesia come tale viene associata all’immagine di un mandorlo che fiorisce controtempo, in fondo all’inverno, “quando nel pomeriggio ancora invernale morso dal gelo/ improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo/ la precocità e l’estrema debolezza del suo splendore” (Enunciati, 2, 1993): ecco però che l’immagine, un’autentica allegoria, viene rovesciata nei versi ulteriori che proseguono dicendo “la fioritura del mandorlo brilla nostro debolissimo vessillo/ tu vessillo di morte precoce e di tutti gli inizi/ poca materia viva circondata di morte”. 

E qui sarà bene ribadire, per l’ennesima volta, che Luigi Di Ruscio non è stato un poeta operaio né un operaio poeta ma qualcosa di più e di meglio: cioè qualcuno che, per il tramite la poesia, ha saputo tradurre la condizione operaia nella condizione umana tout court.

Massimo Raffaeli collabora a il manifesto, al Venerdì di Repubblica e alle trasmissioni di Radio3 Rai.