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Com’è andata ai David di Donatello ce lo hanno raccontato nel day after tutte le principali testate. Tutto come da previsioni. C’è ancora domani ha sbancato con sei statuette, solo una in meno di Io Capitano, che però gli ha soffiato il titolo di Miglior film. Segue Palazzina Laf di Michele Riondino. E poi alla spicciolata Adagio di Stefano Sollima e Rapito di Marco Bellocchio. Il miglior documentario è quello di Mario Martone dedicato a Massimo Troisi, Laggiù qualcuno mi ama.
Il dato positivo di questa sessantanovesima edizione è che il cinema italiano è ancora in grado di parlare alle persone, di raccontare storie che abbiano al centro dei temi. L’immigrazione, la violenza contro le donne, il lavoro. Sono, forse i temi i veri vincitori assoluti di quest’anno. Senza entrare nello specifico dei singoli film – non è questo il momento delle recensioni – si tratta però di tre registi che hanno avuto il merito di affondare le mani nella contemporaneità, dimostrando che quando hai qualcosa da dire, trovi qualcuno che ti vuole ascoltare.
Il film di Paola Cortellesi, un fenomeno esploso forse più di quanto lei stessa si aspettasse, è stato estremamente divisivo. Da un lato i giudizi entusiastici di chi non ha esitato a definirlo un capolavoro, dall’altro la critica incisiva di chi lo ha descritto un’operazione a tavolino e di maniera. Nel mezzo chi sostiene che “sì, ben venga un messaggio anche semplice e semplificato se si vuole parlare a tutti”. Quello che però di sicuro C’è ancora domani ha fatto, è stato riportare le persone in sala. Dal canto suo, con Io Capitano Garrone si conferma un artista capace di mescolare realtà e fiction con la stessa maestria che Antonin Artaud faceva con il suo “teatro della crudeltà”. Michele Riondino, infine, resta fedele al suo modo di dire le cose senza fare sconti a nessuno.
Il cinema italiano vive ormai da anni una crisi profonda, ma questi sono dei piccoli segnali di speranza che si possa ritornare alla vecchia grandeur, almeno per quel che riguarda i film d’autore. Ci manca, ancora, invece da morire quel modo tutto nostro di fare la commedia, ormai sepolto da decenni. Gli autori e i registi italiani sembrano aver dimenticato la lezione di Scola, di Monicelli, di Age e Scarpelli e dei tanti che avevano la capacità di far ridere piangendo e piangere ridendo. Il grande male del cinema italiano non sono le piattaforme (“il contenuto di un medium è sempre un altro medium”) ma le storie scritte male.
E a pagarne le conseguenze sono anche molti bravissimi attori, confinati in ruoli granitici e stereotipati, che non permettono loro di volare. Ma questa è un’altra delle grandi pecche dell’intero sistema nostrano. Un piccolo mondo fatto dei soliti nomi (e dei soliti amici) di cui anche gli addetti ai lavori cominciano a parlare. Non si può non notare, infatti, che i pochi film elencati sopra abbiano fatto il pieno di statuette, ma in concorso ve ne erano ben ventuno, tutti con ottimi requisiti.
Chi, invece, di statuette ne avrebbe volute due è Sergio Ballo, almeno per portarsi a casa la sua e lasciare alla co-premiata, Daria Calvelli, la sua copia personale. Il costumista premiato per Rapito ha accusato i David di tirchieria, “ci avete messo sulle scale come Wanda Osiris”. E la polemica è servita. Ma se non avesse detto niente, quanti oggi saprebbero chi è Ballo, a parte i cineasti e gli addetti ai lavori? E aggiungiamo, purtroppo. Senza scendere nei dettagli del suo discorso e su alcune spiacevoli uscite (cosa c’è di degradante nell’essere una vetrinista o una domestica?) Ballo ha però fatto una cosa che quasi nessuno fa: criticare il sistema dall’interno.
Un sistema che dimentica molti bravi artisti, e che continua sistematicamente a ignorare le maestranze e i lavoratori dello spettacolo che stanno dietro le quinte. Hai voglia a rivendicare la scelta di mettere alcune categorie in degli spazi speciali. Saranno stati pure dei teatri di posa di Cinecittà. Ma sempre lontani dal red carpet erano. E per chi il cinema lo “fabbrica”, niente prima fila.