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Va ad Anora, la Cenerentola-spogliarellista di Sean Baker, la Palma d’oro di Cannes 2024. Ma la vera Palma è quella per il film che non è passato sullo schermo. Il film nel film che si è realizzato con l’arrivo al Festival, dopo ventotto giorni di fuga, dell’autore dissidente Mohammad Rasoulof, scappato dall’Iran a seguito dell’ennesima condanna (otto anni di prigione, più confisca dei beni e una scarica di frustrate) e incoronato con un premio speciale della giuria per il suo ultimo titolo, Il seme del fico sacro.
Dopo le tante sedie vuote ai festival di Berlino, Venezia e anche Cannes, riservate agli autori iraniani invitati come giurati o concorrenti (Rasoulof è stato spesso uno di loro, come Jafar Panahi ancora in Iran) la sua presenza di persona, alla presentazione del suo ultimo film, Il seme del fico sacro, in concorso il 24 maggio, resterà nella storia, e non solo dei festival.
Il cinema, il mondo della cultura e la sua rete di solidarietà internazionale, a cui lo stesso regista aveva fatto appello, per una volta, almeno, sono stati più forti della barbarie, della violenza, della repressione del regime degli ayatollah. E quello scroscio di applausi e commozione che hanno abbracciato l’autore, in un Grand Théâtre Lumière stracolmo ne sono la fotografia tangibile.
“Il mio cuore da una parte è pieno di gioia per essere qui, ma dall’altra è pieno di dolore per tutta l’equipe del mio film costretta in Iran, che è sotto la pressione dei servizi segreti. Così come sono addolorato per la catastrofe che si è abbattuta sul mio popolo preso in ostaggio dal regime - dice dal palco -. In questi giorni giornalisti, studenti, artisti sono condannati a morte. Non permettete che questo accada”.
Per arrivare fin lì, Mohammad Rasoulof ha camminato per giorni tra le montagne, fino a raggiungere il confine con la Germania. Lì vive la figlia Baran, studentessa di medicina, che proprio al posto di suo padre nel 2020 ha ritirato l’Orso d’oro per Il male non esiste. Attraverso l’intervento del consolato ha ottenuto dei documenti provvisori per viaggiare in Europa. Poi arrivare in Francia e poi a Cannes.
Del resto un’odissea è stata anche la realizzazione de Il seme del fico sacro girato come i precedenti in clandestinità. E a causa del quale è scattata la nuova condanna. Qui l’attacco al regime teocratico è frontale. Siamo nei giorni delle manifestazioni e della feroce repressione all’indomani della morte della giovane Mahsa Amini. Attraverso gli occhi di due ragazze, le figlie di un giudice, nel chiuso della loro casa, con la madre a vigilare su di loro, assistiamo alla violenza indiscriminata della polizia morale, dell’esercito. Il repertorio di quegli scontri, passato in rete, ai notiziari, rivederlo in questo contesto, guardato di nascosto con le ragazze, sui loro cellulari, al chiuso delle loro stanze, è da brivido. Mentre il padre, un tempo uomo integerrimo, si trasforma via via, incarnando la deriva di un regime che si insinua, spia e tortura ogni ambito della società.
Persino la famiglia, la sua, che non esiterà di interrogare, torturare e rinchiudere, in questo scontro simbolico tra il potere teocratico/patriarcale e le donne, le giovani generazioni soprattutto, che hanno dato vita al movimento Donna, vita, libertà di cui Il seme del fico sacro è di fatto il manifesto d’autore. Che arriverà in Italia cinema prossimamente distribuito da Lucky Red con Bim.
L’intero palmarès, del resto, è dedicato alle donne, con due registe premiate, l’indiana Payal Kapadia e la francese Coralie Fargeat. Col riconoscimento alla migliore attrice moltiplicato per quattro (le protagoniste di Emilia Perez di Jacques Audiard), e tante storie che raccontano del coraggio e delle battaglie dell’universo femminile. Compreso quello delle donne trans a cui va, commosso, il pensiero e il saluto di Karla Sofía Gascón, la prima star trans a vincere la Palma come miglior attrice.