A poche settimane dalla data del 5 novembre, il primo martedì del mese che ogni quattro anni determina l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, ci avviciniamo all’appuntamento cercando di comprendere meglio la situazione politica e sociale americana proponendo libri e autori dedicati al tema. Il primo volume ha per titolo Gli Stati Uniti oggi. Democrazia fragile, lavoro instabile (Futura editrice, pp. 191, euro 16), uno studio concentrato sulla crisi democratica che attraversa il Paese e le profonde trasformazioni nel mondo del lavoro che scuotono l’intero sistema americano. Ne abbiamo parlato con l’autore Bruno Cartosio, tra gli studiosi più importanti di storia sociale e culturale degli Stati Uniti.

Manca poco più di un mese al voto statunitense. Quanto è cambiato il quadro sociale e politico degli Stati Uniti con la candidatura di Kamala Harris alla presidenza?
L’introduzione repentina di Kamala Harris nello scenario pre-elettorale è stata decisiva fino a questo punto, perché Joe Biden come candidato non aveva un grande appeal, la sua popolarità era relativamente bassa, intorno al 40%. Harris ha risollevato le sorti del Partito democratico e ha messo in difficoltà Donald Trump, che non ha rinunciato alla sua consueta volgarità. Ma la sensibilità dei suoi ascoltatori, e del suo elettorato, con la presenza di una donna è cambiata, e il trattare male una donna si inserisce in un quadro più problematico del sentire collettivo statunitense. Le donne americane potrebbero fargliela pagare.

Il volume contiene un’analisi dettagliata della politica di Biden, modificata e condizionata dagli eventi nel corso del suo mandato. Come devono considerarsi la rinuncia del presidente in carica e le sue più recenti dichiarazioni sui conflitti in Ucraina e Medio Oriente?
A essere sincero auspicavo la sua rinuncia, e credo sia stato un passaggio importante. Uno sguardo alla sua presidenza non può prescindere dall’inversione di rotta avvenuta dopo i programmi presentati nel 2021, riformisti e progressisti non solo nel panorama americano ma per l’intero Occidente. Il fatto di essersi trovato di fronte a posizioni contrarie alle sue proposte anche all’interno del suo stesso partito lo ha portato a fare un passo indietro nelle politiche sociali, che si è rivelato un arretramento dell’intera democrazia sociale negli Usa.

C’è poi la politica estera
Se fosse stato ulteriormente necessario, la presidenza Biden ha confermato una diminuzione del potere di convinzione e del peso politico internazionale degli Usa. Biden non è riuscito a imporre nulla a Russia e Ucraina, né un rallentamento o sospensione delle operazioni di Israele nei confronti della Palestina: anzi, l’aggressività israeliana si è spinta sino in Libano, e tutto questo dimostra che gli Stati Uniti non riescono più ad avere il peso di un tempo. Penso all’attacco del 1956 di Israele all’Egitto per l’occupazione del canale di Suez, quando bastò che Usa e Urss alzassero la voce per bloccare tutto. Ora malgrado il viaggio del segretario di Stato Antony Blinken, le varie dichiarazioni, i tentativi di pressione, Israele non ha rinunciato a nessuna delle sue attività, nonostante le concomitanti condanne dell’Onu e le accuse di genocidio che rischiano di essere sostenute anche dal punto di vista giuridico. A ogni modo, anche in quest’ultima fase in cui Biden cerca di alzarsi un gradino al di sopra della mischia attraverso trattative e richieste di pace, i suoi tentativi non hanno successo. Dal punto di vista internazionale gli Usa dimostrano il proprio calo di autorità e di autorevolezza.

Nel libro si parla di quella statunitense come di una “democrazia fragile”. Quali sono i motivi e perché sembra esserlo sempre di più?
La definizione di democrazia fragile è dello stesso Biden, e altri studiosi parlano di democrazia in arretramento. Al di là di espressioni democratiche come il voto, o il funzionamento di altri aspetti istituzionali, la democrazia americana è fragile e problematica a partire proprio dagli avvenimenti che accadono sul piano sociale. Si tratta di una società estremamente divisa e complessa per un quantità di ragioni, come quella ideologica.

A cui Trump sembra aver dato un notevole contributo…
Esatto. Il trumpismo è l’evoluzione in senso conservatore, reazionario e radicale dei repubblicani, che ha un peso enorme negli ultimi 15 anni, laddove la presenza di Trump risulta decisiva per la svolta reazionaria e oscurantista alla quale abbiamo assistito nell’ultimo decennio. Da qui la crescita di diseguaglianze sociali, un’epidemia nel consumo di oppioidi, le morti per overdose, il numero di suicidi, gli omicidi e i tentativi di omicidi, l’alto tasso di persone messe in prigione o che rimangono sotto il controllo delle autorità, le trasformazioni nel mondo del lavoro, la desindacalizzazione molto pesante in atto, che toglie rappresentatività a gran parte dei lavoratori statunitensi. Anche tutto questo incide nella crisi della democrazia.

A proposito di mondo del lavoro il libro affronta anche questo tema, in particolare occupandosi di gig work. Il precariato coinvolge ormai in modo costante anche il welfare statunitense?
Assolutamente, anzi oggi più di altri Paesi. I sindacati americani sono sempre stati molto economicisti, e nei primi 30-35 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale non si sono mai preoccupati del posto di lavoro, perché il sistema funzionava: chi finiva un lavoro da una parte, lo trovava da un’altra. Adesso anche in Usa il posto di lavoro è da difendere con i denti, e si deve combattere con il fatto che non c’è più la sicurezza dell’impiego. Il gig work è una forma aggiornata della precarietà sociale dei lavoratori, il tentativo di dare una risposta ma non la soluzione al problema, che anzi evidenzia la definizione dei caratteri del problema stesso.

Che tipo di precariato è quello statunitense?
Il precariato odierno è molto più vasto e diverso da quello di prima, perché ci sono delle aziende che gestiscono i precari, i quali lavorano on line attraverso connessioni da cellulare o pc, e avviene al di fuori delle strutture operative del datore di lavoro. Il gig worker usa le proprie strutture per muoversi, usa la sua auto e paga la benzina, non ha nessuna copertura assistenziale e previdenziale, nessuna certezza di lavoro, e al 70% è composto da lavoratori giovani, tra i 18-19 e i 30 anni, soprattutto afroamericani, nati e cresciuti in condizioni di instabilità, non  avendo mai conosciuto un lavoro stabile; quasi tutti sono sfruttati, sottopagati, senza garanzie, il che caratterizza gran parte del mondo del lavoro oggi. Anche le grandi fabbriche sono scomparse, riducendosi di un terzo rispetto agli anni ’70. Ormai chi ha più di 500 dipendenti sono meno di 4.000 aziende, mentre il restante 75% ha meno di venti operai.

Eppure i giganti dell’industria contemporanea si trovano ancora in Usa.
Sì. I grandi dell’industria attuale, Big pharma e Big tech, sono statunitensi. Ma in particolare nella Silicon Valley le grandi aziende non producono niente, dislocando tutto in Cina e nei Paesi dell’ex terzo mondo. E sono tutte aziende in cui il sindacato non è mai riuscito a entrare, i primi nuclei di organizzazione si stanno formando soltanto da poco. C’è stata una trasformazione radicale del mondo del lavoro, e l’“istituto della precarizzazione” risiede nella connettività.

Possiamo azzardare una previsione sull’esito del voto presidenziale, o quali potrebbero essere gli scenari più probabili?
Se la tendenza dell’ultimo mese verrà confermata, se non accadono eventi tali da provocare uno scossone significativo a tale tendenza, è probabile che il prossimo presidente degli Stati Uniti sia Kamala Harris. Con tutte le cautele del caso.