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Il 20 maggio del 1970 la Legge 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, divenendo a tutti gli effetti legge dello Stato. “La Costituzione entra in fabbrica”, scriveva l’Avanti. Alla fine, però, di un lungo e a tratti accidentato percorso.
Nel secondo dopoguerra è Giuseppe Di Vittorio il primo a parlare esplicitamente della necessità di uno Statuto dei diritti dei cittadini lavoratori - già auspicato da Filippo Turati nel 1919 - prendendo la parola nel corso dei lavori del Congresso del sindacato dei chimici nell’ottobre 1952.
“Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del lavoro - diceva il segretario nella sua relazione al Congresso nazionale della Cgil del 1952 - abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e dei lavoratori italiani, anche all’interno delle fabbriche. In realtà oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica (…) Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone. È per questo che noi pensiamo che i lavoratori debbono condurre una grande lotta per rivendicare il diritto di essere considerati uomini nella fabbrica e perciò sottoponiamo al congresso un progetto di 'Statuto' che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (perché questa esigenza l’ho sentita esprimere recentemente anche da dirigenti di altre organizzazioni sindacali), per poter discutere con esse ed elaborare un testo definitivo da presentare ai padroni e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne”.
Ma le parole di Di Vittorio si infrangono nella dura realtà del primo decennio dopo la guerra. Il 1960 sembra iniziare nel peggiore dei modi con il governo Tambroni che provoca e reprime. Proprio a partire dalle proteste popolari e antifasciste avviate a Genova nel mese di giugno del 1960, però, il quadro generale dell’Italia cambia velocemente e gli equilibri politici conoscono un’evoluzione con la nascita dei governi di centro-sinistra.
Il 1960 è uno dei momenti critici nella Storia d’Italia: fine della guerra e sconfitta del fascismo risalgono a soli quindici anni prima, la vita democratica si è fatta strada tra ricostruzione, lotte sociali, contrasti politici. In un momento di forti trasformazioni produttive, con una situazione sociale e politica tesa, la formazione di un governo democristiano con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano viene da molti percepita come il netto orientarsi della classe di governo e del mondo industriale nuovamente verso istanze fasciste. Ai rapidi mutamenti del sistema produttivo, negli anni del pieno boom economico, ed alle forze lavoratrici e sindacali che rivendicano con forza crescente condizioni di lavoro e di vita migliori, le forze padronali e politiche rispondono con un inasprimento degli atteggiamenti autoritari.
Il 6 luglio a Roma viene negata l’autorizzazione ad una manifestazione di protesta per i fatti appena accaduti a Genova. La manifestazione però si tiene ugualmente: sfidando apertamente il divieto i romani scendono per le strade. Porta San Paolo si presenta accerchiata da celerini e carabinieri, per la prima volta nel dopoguerra vengono utilizzati i carabinieri a cavallo. La cavalleria è guidata da Raimondo D’Inzeo, sul gradino più alto del podio olimpico di Roma proprio nel 1960.
Si improvvisano barricate. Si resiste. Molti dei ragazzi in piazza la Resistenza del ’43-45 non l’hanno fatta. Sono troppo giovani. Si ritrovano in strada per combattere la loro Resistenza, quella nuova, quella contro i padroni fascisti ed i loro protettori.
“Il fascismo - scriveva su Rinascita Vittorio Foa - per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.
Nel dicembre del 1963 si ha intanto la formazione del primo governo di centro-sinistra presieduto da Aldo Moro con la partecipazione attiva dei socialisti. Nel discorso alle Camere, il presidente del Consiglio dichiara il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno Statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro.
“Nenni - scrive Giorgio Benvenuto - pone ad Aldo Moro nel 1963, tra le condizioni del Psi per procedere alla realizzazione del governo organico di centrosinistra, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori”.
Nel febbraio 1964 la segreteria della Cgil formalizza con una lettera a Pietro Nenni il proprio giudizio positivo sullo Statuto, ribadendo la richiesta che la legge garantisca i diritti costituzionali dei lavoratori, la giusta causa nei licenziamenti e il riconoscimento delle commissioni interne.
Intanto Gino Giugni, incaricato direttamente da Nenni di redigere con il giurista Tamburrano tre disegni di legge su Commissioni interne, giusta causa e diritti sindacali, inizia la sua collaborazione con il Governo ed entra a far parte della Commissione nominata dal ministro del lavoro Bosco per predisporre un progetto di legge sui licenziamenti, approvato dal Parlamento 15 luglio 1966 (la legge 604 sui licenziamenti prevederà la giusta causa e l’obbligo di un indennizzo monetario, non quello della riassunzione, in caso di licenziamento ingiustificato).
Probabilmente l’iter della legge avrebbe avuto un andamento molto più accidentato, se nel frattempo non fosse scoppiato nel Paese il Sessantotto. In questo contesto di straordinaria mobilitazione collettiva e di eccezionale fermento culturale, il dibattito sullo Statuto si accende.
Le organizzazioni sindacali riprendono il confronto unitario mostrando una crescente volontà di autonomia rispetto ai partiti politici di riferimento. In azienda si giunge all’introduzione di una nuova forma di rappresentanza di base: i consigli di fabbrica.
Il 2 dicembre 1968 ad Avola, in provincia di Siracusa, una manifestazione a sostegno della lotta dei braccianti per il rinnovo del contratto di lavoro finisce nel sangue: la polizia apre il fuoco e due lavoratori vengono uccisi. Circa 50 saranno i feriti, due gravi.
Nell’aprile del 1969 a Battipaglia giunge la notizia dell’imminente chiusura di due grosse aziende della città: la manifattura dei tabacchi e lo zuccherificio. Per il 9 aprile viene indetto un corteo di protesta: già dalle prime ore del giorno, alcune centinaia di persone si radunano e, scortati da polizia e carabinieri, cominciano a muoversi in corteo al grido di ‘Difendiamo il nostro pane’ e ‘Basta con le promesse’. Nel tardo pomeriggio si arriva allo scontro decisivo: il corteo incanala la propria rabbia contro il commissariato dentro cui si sono asserragliati un centinaio di poliziotti e carabinieri che iniziano a sparare sulla folla, uccidendo Teresa Ricciardi, giovane insegnante che seguiva gli scontri dalla finestra della propria abitazione, e lo studente diciannovenne Carmine Citro. Molti saranno i feriti.
Il ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, gravemente malato (morirà a breve), forza - come promesso proprio ad Avola nel gennaio 1969 - i tempi di approvazione dello Statuto con una febbrile attività.
“Se il mio primo impegno assunto quale ministro del lavoro è stato quello di venire ad Avola - aveva del resto detto il neoministro dopo aver trascorso la notte del precedente Capodanno con i lavoratori della fabbrica romana Apollon occupata - ciò non è avvenuto a caso. Era mio dovere”.
Racconta ne La memoria di un riformista Gino Giugni: “Sembrava quasi aver fretta di portare a termine il suo compito. Riuscì a realizzare tre importanti obiettivi: la mediazione nella vertenza sulle cosiddette gabbie salariali, che favorì un accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria sull’unificazione progressiva dei salari nel paese; una riforma delle pensioni che ancorando la pensione all’80% delle ultime retribuzioni ebbe effetti duraturi e venne modificata solo con Amato nel 1992”, e, da ultimo ma certamente non in ordine di importanza, lo Statuto dei lavoratori.
Si arriva quindi velocemente alla nomina di una nuova commissione, presieduta ancora una volta da Gino Giugni che, a capo dell’ufficio legislativo del ministero, condurrà i lavori con particolare alacrità. Intanto la Commissione lavoro del Senato prepara ed il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge da presentare in Aula, integrando il testo base di Brodolini e Giugni, con alcuni articoli ripresi dai disegni legge del Pci e dello Psiup, rafforzando la parte relativa ai diritti individuali dei lavoratori.
In particolare, viene introdotto l’articolo 18 che sancisce la giusta causa nel licenziamento individuale, attribuisce all’imprenditore l’onere della prova di fronte al giudice, impone - per le aziende con più di quindici dipendenti - l’obbligo di reintegro nel caso di licenziamento giudicato illegittimo. Non passa, invece, il riconoscimento giuridico delle commissioni interne e, tanto meno, dei nuovi organismi di base (i consigli di fabbrica) che si stanno formando nelle lotte aziendali.
Il 24 giugno 1969 il disegno di legge governativo viene presentato in Senato. In un’intervista rilasciata a l’Avanti! dello stesso giorno diceva Gino Giugni: “Tra le due parti del progetto che riguardano rispettivamente i diritti dei lavoratori e la presenza del sindacato in fabbrica, esiste innanzitutto una stretta connessione. La nostra tesi infatti è che la creazione di un clima di rispetto della dignità e libertà del lavoratore non può derivare soltanto da una dichiarazione di questi principi, anche quando ad essa, come nel caso nostro, si accompagnino adeguate sanzioni. In realtà, come l’esperienza insegna, la sanzione più efficace riposa nella capacità di contestazione e di innovazione del sindacato e perciò occorre che il sindacato sia presente nell’azienda. La prima parte del progetto riguarda la garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, naturalmente in forme che non impediscano lo svolgimento del lavoro; vengono inoltre eliminate le pratiche di controllo fiscale, le quali sono, purtroppo, ignote dove soprattutto il sindacato è più debole. Tali sono le cosiddette polizie private, le ispezioni personali che potranno essere ammesse solo quando ne ricorre la necessità, e con tutte le garanzie del caso, i controlli per assenza malattia che vano oltre la necessità di reprimere gli abusi, i controlli a distanza con apparati televisivi o di altro tipo che sottopongono il lavoratore ad una vigilanza continuativa, l’irrogazione arbitraria di sanzioni disciplinari, per le quali sono introdotte soprattutto speciali garanzie procedurali. Per la parte concernente più direttamente il sindacato, basti dire che, in pratica, ogni sindacato rappresentativo potrà creare la propria rappresentanza a livello aziendale con la semplice indicazione dei lavoratori o degli organismi a tal fine destinati; per questi saranno operative varie garanzie: diritto di indire assemblee e referendum, di disporre dei locali (nelle imprese con più di 300 dipendenti) e di permessi retribuiti; mentre sarà operativa una speciale tutela contro i licenziamenti e i trasferimenti per rappresaglia. La creazione di un ampio spazio per il sindacato nell’azienda è un’esigenza che si è manifestata in tutti i paesi europei e il diritto sindacale italiano con questa legge apparirà tra i più avanzati se non il più avanzato in senso assoluto. A maggiori poteri si accompagnano naturalmente maggiori responsabilità; ma credo che i sindacati italiani siano in grado di assolvere queste ultime; mentre un imprenditore moderno non può non accettare di buon grado il quadro di relazioni industriali che estende l’area del dialogo e quindi della contrattazione”.
L’11 dicembre il disegno di legge del governo è approvato in prima lettura dal Senato. Votano a favore i partiti di centro-sinistra e i liberali, si astengono - con opposte motivazioni - Msi da una parte, Pci, Psiup e Sinistra Indipendente dall’altra (che si astengono, ma non si oppongono). Il giorno dopo, 12 dicembre, esplodono le bombe alla Banca dell’Agricoltura a Milano: è la strage di Piazza Fontana.
Il 14 maggio dell’anno successivo la Camera dei deputati, con 217 voti favorevoli, 10 contrari e 125 astenuti, approva definitivamente la legge nel testo del Senato dopo che, su richiesta del nuovo ministro del Lavoro Donat Cattin tutti gli emendamenti (tranne quelli del Pli) sono stati ritirati. Il 20 maggio il testo è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.
Lo Statuto dei lavoratori (sei titoli, che vanno dalla tutela della salute dei lavoratori al diritto di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, dal diritto di svolgere assemblee e di indire referendum alla limitazione dei controlli e delle intrusioni nella privacy dei lavoratori - fino a quel momento le perquisizioni corporali in uscita dalla fabbrica erano episodi comuni, soprattutto nei confronti delle donne) formalizzerà, sul piano giuridico, una serie di conquiste ottenute dai lavoratori nel rapporto di lavoro.
Affermerà Luciano Lama, da pochi mesi segretario generale della Cgil: “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata. Anche soltanto qualche anno fa, nelle condizioni di divisione che allora esistevano fra i sindacati e fra i lavoratori, lo Statuto non avrebbe potuto essere, perché la concorrenza fra le organizzazioni avrebbe persino impedito il convergere degli orientamenti sulla conquista di diritti nella fabbrica, diritti che per essere tali e pienamente goduti, devono valere allo stesso modo per tutti. Certo, anche lo Statuto dei diritti presenta dei limiti; ma esso è pur sempre un passo, un lungo passo avanti rispetto alle condizioni del passato e rende finalmente operanti principi che finora, forse già perfetti in linea teorica, non avevano però offerto al movimento sindacale una possibilità di reale godimento. Oggi possiamo partire, per andare ancora più avanti nella fabbrica e nella società, da questi nuovi punti più avanzati”.
Hanno provato a scardinarlo. Gli hanno dato un colpo terribile con l’abrogazione dell’articolo 18. Ma quest’anno, nonostante tutto e tutti, lo Statuto dei lavoratori compie 54 anni. Buon compleanno, Statuto!