Alla fine ha vinto il film norvegese in concorso: Drømmer (Dreams) di Dag Johan Haugerud. La giuria di Todd Haynes ha fatto la sua scelta: è la storia di una ragazza di 17 anni, Johanne, che si innamora della sua insegnante. Un racconto sull’amore, sui sentimenti di oggi e sulla nuova sessualità dei giovani, dunque un film esattamente “in tempo” per il contemporaneo. L’ennesimo segnale, come vedremo, che la Berlinale ha segnato un ritorno all’umano contro la disumanità che arriva fuori dallo schermo, nella nuova geografia politica di oggi. Proprio alla vigilia delle elezioni in Germania, dove si rischia l’ennesima onda nera sull’Europa.

L’Orso d’argento è andato al brasiliano The Blue Trail, sulla condizione degli anziani che diventa politica. Il titolo argentino, The Message di Ivan Fund, ha vinto il Gran premio della giuria. Miglior regista è il cinese Huo Meng per Living the Land, il premio migliore interpretazione va a Rose Byrne, nella nuova tradizione di Berlino che assegna il premio senza distinzione di genere.

C’è un premio anche italiano, lontano dai lustrini e dai nomi più inflazionati: è Canone Effimero di Gianluca e Massimiliano De Serio, il bel documentario sulle comunità rurali del nostro Paese, che ottiene la Menzione speciale della Giuria nella sezione Forum. Un riconoscimento importante per due cineasti fuori dal circuito.

La kermesse di Potsdamer Platz si era aperta con la ferma condanna del terrorismo: dopo l’attentato del 13 febbraio a Monaco di Baviera, con un’auto piombata sulla folla durante una manifestazione sindacale, dal palco dell’inaugurazione è arrivata la condanna e la solidarietà per le vittime. Del resto la Germania vive un momento politico complesso, con la tornata elettorale che si svolge proprio oggi, domenica 23 febbraio, col rischio dell’avanzata dell’estrema destra.

Il ritorno all’umano

Anche per questo, come per resistenza, è stato il festival del ritorno all’umano. Molti registi, attori e autori hanno criticato il nuovo ordine mondiale, all’ombra di Trump e Musk, con lo spettro dell’Intelligenza Artificiale e il suo uso distorto. Tra questi c’è stato il cineasta rumeno Radu Jude, già Orso d’oro nel 2021, che è tornato in concorso col nuovo Kontinental ’25. Il film racconta la storia di un’ufficiale giudiziaria, Orsolya, che è chiamata a sfrattare un clochard a una cantina: quando il pover’uomo tragicamente si suicida, la donna viene colta dai rimorsi e inizia un percorso di espiazione. Una nuova provocazione dal maestro rumeno, dunque, per sottolineare che l’umanità è preziosa e non possiamo perderla, soprattutto di questi tempi. 

Tilda Swinton per Gaza

“Il disumano ha ormai invaso il nostro sguardo”. Sulla stessa linea Tilda Swinton, nel suo discorso pronunciato per ritirare l’Orso d’oro alla carriera, che in pochi minuti ha fatto il giro del mondo per il valore politico. Senza mezzi termini, l’attrice si è rivolta al presidente americano in relazione alla situazione di Gaza: “C’è un omicidio di massa perpetrato dallo Stato – ha detto -, consentito a livello internazionale che sta gettando nel terrore una parte del mondo. La mia incrollabile vicinanza va a coloro che riconoscono l'inaccettabile compiacenza dei nostri governi avidi, i quali si comportano bene coi distruttori di pianeti e i criminali di guerra, da qualunque parte provengano”. Più chiaro di così.

Kontinental '25 di Radu Jude

I migranti e gli anziani

Rientrando nello schermo, tanti sono stati i momenti da ricordare di questa edizione. In concorso c’è stato il cinema della crudeltà di Michel Franco in Dreams: una ricca filantropa americana (Jessica Chastain) è l’amante di un giovane messicano clandestino, intavolando una relazione pericolosa all’insegna della dominante e il dominato, ovviamente per motivi economici. Un rapporto che diviene politico alla luce dell’oggi, con nuovi muri e nuova repressione nei confronti dei migranti messicani.

Altrettanto politico è stato The Blue Trail di Gabriel Mascaro, dal Brasile, sul tema sempre scottante degli anziani e le loro condizioni: nel prossimo futuro i “vecchi” sono costretti a trasferirsi in colonie lontane per lasciare che i giovani svolgano indisturbati il loro lavoro. Una di loro, Teresa, settantasette anni, però si rifiuta e inizia una personale forma di resistenza attraverso l’Amazzonia. Un canto per gli anziani, quindi, per il loro ruolo da valorizzare dentro le nostre società.

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La guerra in Ucraina, la storia della Cina

Non poteva mancare la guerra in Ucraina. Viene mostrata da una prospettiva peculiare in Timestamp di Kateryna Gornostai, documentario che mostra la resistenza delle scuole che restano aperte, provando a portare avanti la loro missione di cura e istruzione verso i bambini negli anni durissimi del conflitto.

Siccome un festival è anche un giro per il mondo, una doppia sorpresa è arrivata dalla Cina, con due film in competizione che raccontano rispettivamente il passato e il presente. Living the Land di Huo Meng rappresenta una piccola comunità contadina nella Cina degli anni Novanta, lontana dai grandi centri, colpita dalle politiche del regime – come il figlio unico – ma coesa e resiliente, in grado di inglobare tutti i suoi abitanti. Girls on Wire di Vivian Qu è il titolo più contemporaneo: due ragazze a Pechino oggi, due cugine che si sentono sorelle e provano a sopravvivere nella terra ostile e criminale. Due facce della stessa medaglia dello Stato asiatico.

The Blue Trail di Gabriel Mascaro

Il film israeliano contro Netanyahu

Nella sezione Forum, una delle opere che più ha colpito è il documentario Holding Liat di Brandon Kramer. Una visione incredibile, quindi vera: Liat è una donna israeliana che viene rapita da Hamas il 7 ottobre, prelevata dal kibbutz, e proprio in quel momento l’autore accende la cinepresa. Segue la lotta della famiglia, israeliani americani, per riaverla indietro, le sfiancanti trattative e l’escalation della situazione.

Ma c’è una particolarità, che costruisce il senso del film: il padre di Liat realizza da subito che la risposta non è la distruzione sistematica della Striscia di Gaza, lo dice apertamente, si impegna e diventa attivista contro Netanyahu. Un gesto importante, soprattutto perché arriva da un israeliano contrario al proprio governo e con una figlia nelle mani di Hamas. Come sempre, le visioni spiazzanti sono anche le più efficaci.

Un festival politico

La Berlinale si conferma allora un osservatorio privilegiato sul presente, i suoi conflitti, le sue contraddizioni. Una voce umana e un messaggio di speranza.  Alla domanda se si possa considerare un festival politico, la direttrice Tricia Tuttle non ha dubbi: “La politica è nel DNA della città e del festival stesso. Berlino è tante cose ma, come per ogni festival, l’agenda delle notizie può spesso dominare la scena. Vorrei però che i film – ha aggiunto – facciano discutere le persone per la vivacità della forma d’arte in se stessa”. Missione compiuta. Ora speriamo che l’arte settima riesca a influenzare anche la realtà.