Fumettista e attivista, Anarkikka (aka Stefania Spanò) sfodera l’arma dell’ironia per mettere al tappeto stereotipi, luoghi comuni e atti di violenza, fisica e verbale, che alimentano un sistema di potere fondato sul patriarcato. Impegnata in progetti di sostegno concreto alle donne vittime di violenza, ha prestato la sua arte alla campagna Donne e lavoro, che impresa! che è stata presentata ieri (14 dicembre) a Bologna, presso la Fondazione Marco Biagi. L’incontro è stato l'evento conclusivo del progetto CapacitAzione e AspirAzioni rivolto in particolare ad alcune donne in uscita dalla violenza, che hanno fatto il loro percorso nei centri antiviolenza e vengono poi reinserite nel mondo del lavoro. L’intento principale è fornire informazioni su quali siano i diritti delle lavoratrici, oltre che accogliere queste donne in azienda, attraverso percorsi formativi e di inserimento lavorativo.

Anarkikka, quali sono ancora oggi i punti di maggiore debolezza per le donne nel mondo del lavoro, almeno rispetto a quanto emerso da questa sorta di osservazione sul campo?

Ci sono ancora davvero troppe donne che non lavorano, o costrette a rinunciare al lavoro quando restano incinte, o diventano madri, o scelgono forme di lavoro ridotto come il part-time. Per le donne in uscita dalla violenza il discorso è ancora più complicato, perché l’autonomia economica è il passo più importante verso la libertà e per loro è molto difficile costruirsi una vita nuova. Ecco perché sarebbe importante che si instaurassero collaborazioni forti tra i centri antiviolenza e le aziende, oltre alla necessità di proteggere queste donne da un secondo rischio proprio nei luoghi di lavoro, di altre forme di violenza: le molestie, il mobbing, lo stalking, il ricatto sessuale, il demansionamento, l’intersezionalità, soprattutto quando si parla di donne soggette a discriminazione anche perché nere o disabili.

Donne e lavoro è ancora, davvero un’impresa? Perché non si riesce a smontare un sistema così vecchio e ingiusto?

Sfuggire è facile perché il tema è talmente complesso… Noi stesse in quanto donne rischiamo di cadere nella trappola dell’abitudine, che ci porta a lasciar correre delle cose come normali, perché vanno “naturalmente” così. Per esempio quando si ha a che fare con donne che vivono una condizione di urgenza, hanno una necessità impellente di reinserimento nel mondo del lavoro, capita di non riconoscere le loro competenze e capacità, l’esperienza pregressa, il loro background formativo. L’obiettivo di questa campagna è anche quello, dunque, di fornire strumenti per capire se i diritti non vengono rispettati, e sapere a chi rivolgersi, da chi farsi aiutare.

Perché – pensando anche ad episodi recenti come le dichiarazioni del ministro Valditara – c’è ancora chi si ostina a sostenere che il patriarcato non esiste?

Fa paura perché significa decostruire un sistema a cui siamo abituati da millenni. Le persone hanno una necessità di regole ferree, sistemi rigidi, binari entro cui muoversi. Se il binario viene sganciato, le persone vanno in tilt. Il nostro è un sistema fondato sulle disparità, sui privilegi e sulla declinazione al maschile. La violenza, per esempio, non si può ricondurre solo al femminicidio. E infatti nel momento stesso in cui un uomo dice di se stesso “ma io non sono un uomo violento” vuol dire che non ha capito di fare parte di un sistema di potere.

Come recita una sua vignetta: “Vogliamo il potere. Poter essere, poter fare, poter amare, poter scegliere”...

Purtroppo quando pensiamo al potere diamo alla parola un’accezione negativa. E invece è una parola bellissima: poter fare, poter crescere, poter essere libere. Dovremmo ricominciare dall'uso delle parole per cambiare anche i paradigmi.

Lei ha curato le illustrazioni del libro di Michela Murgia Stai zitta, e raccolto le sue nel libro Non chiamatelo raptus. Due lavori che riflettono sul linguaggio, e sulla pratica di usare le parole per sminuire. Perché lo facciamo?

Si sminuisce l'atto violento perché si cerca in qualche maniera di ridurlo all'aspetto privato e quindi al singolo episodio, rispetto al quale sembra che noi come società non abbiamo responsabilità. A ciò si aggiunge questa atavica e radicata idea che una donna vale di meno. E quindi è questo concetto alla base che dobbiamo rivoltare e non è semplice. Poi c’è un tema relativo alla rappresentazione della violenza: si tende a mostrare sempre la donna, l’oggetto della violenza. Mai l’attore del gesto o del comportamento violento. Come se fosse una questione tra noi donne, che dobbiamo salvare, ci dobbiamo aiutare. Noi che ce la siamo cercata, che lo abbiamo abbandonato, che lo abbiamo fatto ingelosire.

Ha sentito parlare dei “No Turetta”? Sono i nuovi terrapiattisti, no vax? 

Come ho scritto qualche giorno fa in una mia vignetta pubblicata su Instagram, “Turetta non esiste. Come il patriarcato”. Faccio veramente molta fatica a entrare nella mente di questi negazionisti. Mi viene solo da dire che il livello della stupidità umana si è abbassato talmente tanto che persino il livello di chi le spara grosse è diventato ancora più basso e banale.

Sempre a proposito di Filippo Turetta, stiamo assistendo in queste settimane ai suoi interrogatori, in cui un ragazzo poco presente a se stesso racconta come ha ucciso Giulia Cecchettin. Vedere il “mostro” non rischia di creare un effetto distorto di empatia?

Ma infatti la questione ci porta sempre lì: ad empatizzare con chi agisce la violenza. Nello specifico, poi, quello che a me preoccupa molto è il tema dei ragazzi e degli uomini che compiono questi gesti. Uomini rinchiusi in mondo e in un modello culturale che non riusciamo ancora a scardinare. Io lavoro moltissimo coi ragazzini e mi rendo conto che hanno difficoltà enormi a entrare in relazione con le proprie emozioni, con i propri fallimenti, con tutta una serie di dinamiche che non aiutano neanche loro a crescere in maniera sana. C'è un disagio enorme, e noi dobbiamo diventare capaci di affrontarlo se vogliamo che le cose cambino davvero. Molti ragazzi che incontro, quasi ci rimangono male quando scoprono che non sono giovanissima, perché io riesco a entrare in sintonia con loro attraverso il linguaggio dell’ironia e delle immagini, che loro comprendono e utilizzano. E quindi si sentono vicini a me, quando ci lavoro, cercando di tirar fuori le emozioni, di spingerli a raccontarsi. L’ironia è ancora un’arma potentissima. E però c’è ancora moltissimo da fare per annientare gli stereotipi, per fare in modo che ragazze e ragazzi facciano rete tra di loro. Fa venire i brividi il pensiero di quanto si stia abbassando l’età media dei ragazzi che compiono gesti violenti. Facciamo passi indietro giganteschi, tornando a concetti come la gelosia, il possesso, il controllo.

La famosa educazione affettiva che ancora non ci decidiamo a far entrare nelle nostre scuole...

E invece le ragazze e i ragazzi dovrebbero essere accompagnati in un percorso di crescita, che insegna a riconoscere e valorizzare gli affetti. Parlare di rispetto, di bene, di consenso. Sono loro stessi a chiederci di capire, di parlarne di più. Ma noi non li ascoltiamo. Quando li incontro per tre o quattro volte e poi “sparisco”, mi sento molto in colpa, perché loro hanno bisogno di comunicare, di essere ascoltati, e non di essere lasciati in sospeso. Le generazioni precedenti hanno sempre trovato negli adulti un riferimento, anche da contrastare, con cui litigare. Oggi, invece, i giovanissimi vivono nel silenzio, c’è una distanza enorme con noi adulti. C’è una chiusura generazionale che nasce dalla sensazione di non essere ascoltati, e percepiti come se fossero trasparenti.

Leggi anche