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Tra gli innumerevoli libri che hanno indagato l’opera e l’anima di Pier Paolo Pasolini, nella seconda metà degli anni Novanta viene pubblicato da minimum fax Improvviso il Novecento (ora riproposto con una nuova introduzione in versi) scritto da Giordano Meacci, a suo modo tra gli autori più “pasoliniani” della nostra contemporaneità. Meacci ricostruisce attraverso la cronaca e le dirette testimonianze il periodo in cui Pasolini arrivò a Roma agli inizi del 1950, cercando insieme alla mamma la maniera per sopravvivere nella capitale; ottenne una supplenza per un triennio nella scuola media “Francesco Petrarca” di Ciampino. Da qui partì la sua avventura romana, che in un quarto di secolo lo condusse dalla notorietà alla morte per omicidio, avvenuto la notte tra il primo e il due novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia. Oltre i contenuti del libro, originali e utili per conoscere alcuni tratti peculiari del protagonista, non poteva scegliersi titolo più azzeccato.
Sì, perché il Novecento di Pasolini è stato veramente improvviso, spiazzante, dirompente, descrivendo e rappresentando una realtà che cambiava velocemente come prima mai, allo stesso tempo riuscendo nell’esercizio intellettuale di restituire un passato divenuto d’un tratto troppo lontano, spesso rimosso, mentre presagiva un futuro implacabilmente avveratosi nel nostro, di secolo, davanti ai nostri occhi. Anche per questo Pasolini continua a essere letto, studiato, visto, recitato, commentato, amato e odiato: perché continua a parlare del mondo che ci circonda, anche se questo mondo non lo abita più ormai da quasi cinquant’anni.
Le opere postume e diversamente incompiute, Salò nel cinema e Petrolio in letteratura (di nuovo in libreria per Garzanti con la minuziosa curatela di Maria Careri e Walter Siti), in questo senso testimoniano il desiderio di esserci ancora per comprendere meglio, per insistere in uno scavo sociale, politico e culturale là dove in pochi osano addentrarsi; soprattutto, nel tempo sembrano assolvere alla volontà dell’autore di lasciare una filigrana sottile quanto inequivocabile di una denuncia invece chiara e percepibile, resa torbida e oscura da chi vuole resti tale. Ormai lo sappiamo come lo sapeva Pasolini, avendolo scritto sulle colonne del più autorevole quotidiano italiano: continuano a mancare le prove.
Impossibile scovare oggi, a cento anni dalla nascita, qualcosa che sia originale o inedito riguardo la vastissima attività pasoliniana. Tutto è stato scoperto, tutto ormai può essere in qualche modo consultabile. Può tornare allora utile qualche traccia da ricercare in quella produzione minore che minore non è, facendo parte di un’opera omnia che sarebbe fuorviante, oltre che erroneo, comprimere in categorie o generi, una volta riconosciuto il suo viaggio continuo tra gli strumenti della comunicazione culturale (romanzo, teatro, poesia, cinema, giornalismo). L’interesse e il sentimento con i quali guardava agli ultimi, in particolare ai lavoratori, a quella che ai suoi tempi veniva ancora definita classe operaia, è soltanto uno tra gli orizzonti possibili.
Dell’inverno 1970 sono ad esempio gli Appunti per un romanzo sull’ immondezza, 85 minuti di girato (ridotti in seguito a 40 dall’ottimo lavoro registico di Mimmo Calopresti) tra i netturbini di Roma in rivolta. Si tratta di immagini in bianco e nero messe insieme dal Pasolini regista nei giorni precedenti il primo sciopero romano del settore: un materiale grezzo, privo di vera struttura narrativa, nel quale possiamo assistere in sequenza a un’assemblea affollatissima, con i lavoratori in giacca e cravatta che ascoltano alcuni sindacalisti esporre dal palco le ragioni della protesta.
Come sua consuetudine, P.P.P. riesce a comporre una galleria di volti operai concentrati, assorti, poetici ed espressivi per istinto. La sua passione per l’inchiesta lo porta sul campo, li coglie al lavoro nei mercati generali mentre la macchina da presa inquadra pile di cassette vuote, gli spogliatoi, le docce alla fine di una lunga giornata. Sullo sfondo i frammenti di una Roma deserta, bagnata da una pioggia sottile e incessante sui palazzoni dell’Ostiense. A chiudere le interviste dirette ai lavoratori, metodo già sperimentato nei celebri Comizi d’amore, anche se in questo caso purtroppo prive di sonoro.
Ancora una volta, la forza di queste immagini deriva dal fascino dell'incompiutezza, di una ricerca portata avanti dal Pasolini più “puro”, quello che durante una nota apparizione televisiva, con toni pacati d’altri tempi, ribaltava il concetto di élite, considerando tale il popolo stesso, in quanto teoricamente ancora poco contaminato dal modello di massa borghese sempre più dominante: a proposito di classe operaia, una delle sue frasi più conosciute afferma come “ciò che resta originario dell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere”.
La colonizzazione del potere, appunto. Tra le varie profezie attribuitegli forse questa è la più vera, la più forte, quella che oggi, in questi anni connessi e disconnessi nello stesso frame, si sta compiendo in maniera definitiva, e dolorosa. Basterebbe tornare a sfogliare qualche pagina di Lettere luterane o degli Scritti corsari, due tra le sue migliori espressioni artistiche, per ritrovare tutto; oppure osservarlo mentre passeggia tra le costruzioni e le dune di Sabaudia, ragionando su quella omologazione "che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere”, ma che “il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, riesce a ottenere perfettamente, distruggendo le realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini”. Un processo avvenuto in modo talmente rapido, conclude con gli occhi perduti nella telecamera, da non farcene rendere nemmeno conto.
In questi giorni di dolore e sgomento, in questi giorni di guerra, l’ennesima guerra, risuona in testa la voce del corvo di Uccellacci e Uccellini: “Quando un popolo invade un altro popolo, colpisce e uccide perché ha torto”.
Pasolini non muore mai.