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L’acqua in Italia c’è, c’era, c’è sempre stata. Certo, dal 1950 a oggi è diminuita del 14 per cento, ma in questi decenni è stata stressata, sprecata, gestita male, prosciugata. E adesso, con il Po in piena siccità, sta anche diventando salata: la riduzione della portata del fiume, unita a un progressivo abbassamento dell’alveo, contribuisce alla risalita del cuneo salino che in questi giorni è avanzato di 30 chilometri. Perché allora siamo a un passo dal dichiarare lo stato di emergenza nazionale per la siccità? Perché in alcuni Comuni sono partiti razionamenti e divieti, alcune centrali idroelettriche si sono fermate a causa della scarsità dell’acqua, interi raccolti sono a rischio?
Ha piovuto poco e ha nevicato ancor meno quest’inverno, è la risposta più semplice. È vero: le piogge sono diminuite del 40-50 per cento rispetto alle medie degli ultimi anni e la neve del 70 per cento, stando ai dati forniti dal capo della protezione civile Fabrizio Curcio. Ma non è la prima volta. Negli ultimi 20 anni in Italia abbiamo avuto crisi siccitose nel 2003, 2007, 2012, 2017, e ora nel 2022. Quindi non è un fenomeno nuovo, sarebbe sbagliato pensare che sia così. Gli scienziati lo sanno bene e lo ripetono da tempo.
“La carenza di risorsa idrica che stiamo vivendo è causata dai cambiamenti climatici in atto, che hanno un impatto sulla temperatura della Terra ma anche sulle piogge e su tanti altri eventi estremi, dalle alluvioni lampo agli incendi che si propagano più velocemente, ai tornado – spiega Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr, intervenuto a un seminario sul tema organizzato dalla Cgil -. Non c’è solo il caldo o il fatto che si suda di più. Se anche la temperatura rimanesse quella di oggi, i ghiacciai perderebbero un 30-35 per cento di volume fino a fine secolo. Ma attenzione: questa condizione è irreversibile, non possiamo tornare più indietro. Se invece non mettiamo un freno al global warming, si potrebbe verificare lo scenario peggiore: al 2100 ci rimarrebbe solo un 5-10 per cento dei ghiacciai che abbiamo oggi”.
Tradotto: ci stiamo giocando le riserve idriche delle Alpi. Ma questo è solo uno dei tanti effetti diretti e indiretti della siccità. “Quando parliamo di siccità stiamo prendendo in considerazione un fenomeno che può avere impatti differenti, che non sono solo legati alla non disponibilità di risorsa idrica e che dipendono dal perdurare della crisi - afferma Stefano Mariani, esperto dell’Ispra -. Quest’ultimo è quello più evidente. Per questo si parla di siccità meteorologica, idrologica, agricola, e socio-economica e ambientale”.
D’altra parte la situazione attuale era stata ampiamente prevista, era prevedibile ed è stata anche annunciata. A febbraio l’Autorità distrettuale del fiume Po aveva lanciato l’allarme, delineando le conseguenze di un inverno con il quantitativo minore di neve caduta degli ultimi vent’anni, che avrebbe contribuito a causare un gap idrologico di portata storica. “A marzo è arrivato anche il rapporto del Joint Research Centre europeo sulla siccità nel Nord Italia – afferma Simona Fabiani, responsabile delle politiche per il clima, il territorio e l'ambiente, trasformazione green e giusta transizione della Cgil -, che sollevava ‘preoccupazioni per gli impatti diffusi e simultanei’ della carenza d’acqua”.
E siamo a oggi: dopo mesi senza pioggia e neve, temperature record, incendi raddoppiati, pesanti perdite economiche per l’agricoltura e ricadute anche per la produzione idroelettrica e per gli impianti termoelettrici che usano l’acqua per il raffreddamento. “Tutto questo si traduce anche in lavoratori che rischiano la salute e il posto – aggiunge Fabiani -, competizione fra settori economici e contrapposizioni fra territori per l’uso di una risorsa sempre più scarsa e preziosa. Il tema della sicurezza alimentare planetaria e dell’interconnessione tra clima e cibo è centrale”.
Ciononostante, continuiamo a chiamare emergenza un fenomeno che è in atto da decenni e che gli scienziati sono unanimi nel dire che va fermato. O meglio: bisogna gestire l’inevitabile, che vuol dire attuare interventi di adattamento, ed evitare l’ingestibile, cioè mitigare. “La Cgil ha avanzato da tempo le proprie proposte e le priorità di intervento – fa presente Fabiani -: dal potenziare e adeguare acquedotti, reti e impianti di depurazione e fognari, all’interconnettere le reti di distribuzione e l’uso solidale della risorsa, fino alla riduzione delle perdite nelle reti. È insostenibile avere perdite che superano il 40 per cento e gestori che distribuiscono gli utili invece di fare gli interventi necessari per ridurle e migliorare la qualità delle acque e del servizio”.
Le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza per questo settore sono complessivamente 4,38 miliardi: poche ed evidentemente in ritardo di spesa rispetto alle necessità. “E poi sono frammentate come lo sono anche le competenze che afferiscono ai distretti e alle singole Regioni – sostiene Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil -. Su questo punto possiamo provare a intervenire a livello nazionale ma anche territoriale, sul fronte della contrattazione e della governance. Inoltre, rispetto alla programmazione bisognerebbe dare continuità agli interventi, in modo che quanto verrà attuato adesso con le risorse del Pnrr, possa proseguire anche dopo. Questa è una vera sfida anche per il sindacato, gestire il cambiamento delle nostre scelte di politica economica e degli stili di vita, verso un modello di sviluppo e produttivo sostenibile e giusto”.