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Gli effetti del processo autodistruttivo con cui da secoli sfruttiamo costantemente il nostro pianeta non sono mai stati così evidenti e nocivi. Nonostante sia sotto gli occhi di tutti quanto dannoso sia continuare a sottomettere agli interessi dell’economia e della finanza le risorse naturali e il benessere dell’uomo, in una sorta di gara all’estinzione di tanti per la ricchezza di pochi, continuiamo a non intervenire in maniera decisa su nessuna delle emergenze con cui ormai conviviamo ogni giorno.
E a quanto pare né il surriscaldamento globale, né le conseguenze dei cambiamenti climatici e purtroppo nemmeno la pandemia, stanno facendo rinsavire l’umanità costringendola a prendere decisioni concrete per invertire una tendenza che sembra ormai inarrestabile. Noi invece pensiamo si possa e si debba cambiare.
Pensiamo che la tutela della biodiversità avrebbe evitato la pandemia, che la diminuzione delle emissioni avrebbe garantito un ambiente più salubre e vivibile e che la qualità della vita delle persone debba essere il riferimento su cui si promuovono le politiche economiche globali e territoriali. Non è accettabile che in un momento di transizione generale, che ci porterà a un’economia e una società totalmente rinnovate dal loro schema classico, non si rimetta al centro il rispetto e la salute dell’uomo e della Terra come condizione universale per il progresso collettivo.
Non è accettabile, soprattutto, alla luce delle numerose e altisonanti promesse a cui assistiamo costantemente da alcuni anni nel venale tentativo di addolcire una condizione ormai insostenibile. Notiamo, anzi, come si stia riuscendo a sottomettere all’interesse economico concetti nobili e virtuosi come l’uguaglianza, l’ambientalismo, il rispetto, l’equilibrio alimentare.
Siamo in una fase in cui si favorisce la produzione di cibi dannosi alla salute e irrispettosi del lavoro che serve a produrli e al rispetto dell’ambiente, finanziandone le filiere con risorse pubbliche e autorizzandone un eccessivo spreco. E il paradosso è che il concetto di sostenibilità e green sono diventati dei “brand promozionali” che mascherano sfruttamento delle persone e dei terreni agricoli.
Siamo in un paradossale cortocircuito mediatico in cui le promesse, le aspettative e le pubblicità d’iniziativa sono diametralmente opposte alla realtà in cui viviamo e alla prospettiva in cui vorremmo vivere. Serve concretezza nelle azioni in tutti i settori, serve una visione sistemica delle scelte che si prendono e nella definizione delle priorità, serve un’immediata inversione nelle logiche d’investimento e non mere operazioni di greenwashing.
Come Flai Cgil, organizzazione di rappresentanza dei settori agroalimentari, ci chiediamo perché non sia possibile avere un filo conduttore tra il rispetto dell’ambiente, del lavoro, della salute e del cibo. Perché le politiche a sostegno di questi temi così centrali per il nostro futuro non siano condotti dalla stessa logica. Perché non venga garantita la salubrità degli alimenti nei nostri scaffali e sia invece ancora possibile lo sfruttamento del lavoro per produrli.
Perché non ci sia il finanziamento delle produzioni di prossimità che curano l’ambiente rispetto a quelle industriali e intensive che il pianeta lo avvelenano. Perché invece di tutelare la biodiversità e impedire il consumo del suolo in cui essa vive continuiamo a cementificare il nostro paese. Perché invece di promuovere un consumo sano e sostenibile viene favorito lo spreco e l’inquinamento.
Riteniamo, così come il coordinamento Fridays For Future ha ribadito nel convocare la mobilitazione globale del 19 marzo, a cui diamo tutto il nostro sostegno, che non sia più tempo di “vuote promesse”, ma che anzi ci siano gli spazi per numerose e interessanti attività pratiche da mettere in campo fin da ora. Noi, come soggetto sindacale, ovunque potremmo far sentire la nostra voce per promuovere un’idea diversa di progresso, di rispetto della natura e dell’uomo faremo la nostra parte.
Tina Balì e Andrea Coinu, dipartimento Ambiente e Territorio Flai Cgil