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Nonostante gli impegni presi dai governi del mondo in occasione della firma dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, le azioni concrete di molte istituzioni finanziarie e di gran parte degli operatori del settore bancario sono ancora assai lontane da quanto sarebbe necessario per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 del 43 per cento entro il 2030 e del 60 per cento entro il 2050. E anzi, la condotta pervicace di molti colossi finanziari, proni alle sole istanze del massimo profitto immediato, rischia di allontanarci persino dagli obiettivi minimi.
“Paga per il finanziamento del clima” è il tema dell’ultima giornata di mobilitazione della Global week of Action, otto giorni di iniziative ed eventi sui cambiamenti climatici.
6.900 sono i miliardi di dollari che le 60 banche più grandi del mondo hanno destinato al settore fossile negli ultimi 8 anni. Una mole enorme di denaro che equivale, per esempio, a più del doppio del Pil di una potenza come il Regno Unito e a tre volte quello dell’Italia.
Il dato è contenuto nel report Banking on Climate Chaos, lo studio redatto annualmente da Rainforest Action Network insieme ad altre organizzazioni ambientaliste. Si tratta di un’analisi che somma gli impegni finanziari, prestiti e sottoscrizione di emissioni di debito e azioni, delle 60 maggiori banche del mondo nei confronti del settore dei combustibili fossili nel suo complesso: una somma che pesa sul futuro del Pianeta, aggravando la crisi climatica.
Banking on Climate Chaos 2024 evidenzia alcuni dati particolarmente preoccupanti.
Quasi la metà dei finanziamenti (3,3 trilioni di dollari) concessi negli otto anni presi in considerazione è andata a progetti di espansione dei combustibili fossili.
Le banche statunitensi sono le principali finanziatrici dei combustibili fossili, seguite da quelle cinesi, canadesi, giapponesi, britanniche e francesi. Ma non mancano le italiane, con i due principali istituti finanziari del nostro Paese, Unicredit e Intesa Sanpaolo, che nel 2023 sono rispettivamente al 35esimo e al 42esimo della classifica contenuta nel report.
Nel solo 2023 le banche hanno destinato 705 miliardi di dollari al settore che più di tutti è responsabile di emissioni. JP Morgan Chase è stata la prima banca per finanziamenti ai combustibili fossili nel 2023, con 40,8 miliardi di dollari investiti (un importo maggiore di quello dello scorso anno, pari a 38,7 miliardi).
Tutto questo non solo contribuisce al cambiamento climatico, ma produce tangibili ripercussioni dirette sulle comunità locali e sugli ecosistemi. Progetti di estrazione e infrastrutture spesso portano a violazioni dei diritti umani, violenze, inquinamento delle acque e distruzione degli habitat naturali.
Le comunità indigene e le regioni già vulnerabili sono quelle che subiscono gli impatti peggiori delle attività di estrazione, ma anche degli eventi estremi provocati dalla crisi climatica. Senza dimenticare che, secondo quanto riportato dal quotidiano britannico The Guardian, l’inquinamento da combustibili fossili è responsabile della morte di cinque milioni di persone all’anno.
Il tempo che ci separa dal punto di non ritorno sta terminando. Ma le alternative al modello di sviluppo e di finanza dominanti già esistono e, se adottate convintamente a livello globale, consentirebbero ancora all’umanità di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C.
La svolta deve però essere collettiva, magari prendendo a modello le buone prassi già perseguite dalla finanza etica, che sostiene realtà e progetti che contribuiscono alla transizione ecologica e al contrasto al cambiamento climatico, coniugando l’impegno ambientale con la costruzione di un modello economico rispettoso dei diritti umani e sociali.
Nazzareno Gabrielli, direttore generale di Banca Etica