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Mentre l’Inps e il ministero del Lavoro si ostinano a negare l’accesso alle prestazioni di welfare agli immigrati sprovvisti di permesso da lungosoggiornante, i tribunali, su sollecitazione dei ricorsi legali promossi da Inca e Cgil, continuano a consolidare un orientamento giurisprudenziale di segno totalmente opposto. L’ultima sentenza, emessa dal Tribunale ordinario di Teramo il 5 marzo scorso (n. 150), ha condannato l’Inps a pagare il bonus bebè a un nigeriano, titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro e non di un permesso Ue di lungo periodo. L’assegno di natalità (anche detto bonus bebè) è un sussidio mensile, originariamente previsto per tre anni a partire dalla data di nascita del bambino o di ingresso in famiglia nel caso di adozioni o di affidamenti preadottivi, poi ridotto a 12 mesi con la legge di Bilancio 2018, il cui riconoscimento è subordinato a un Isee non superiore a 25 mila euro.
Anche questa volta il giudice nelle motivazioni ha confermato quanto già stabilito in precedenti verdetti, quali quelli emessi dalla Corte d'Appello di Milano con sentenza n.1003 del 29 maggio 2017, dal Tribunale di Bergamo con l'ordinanza del 14 aprile 2016, dalla Corte d'Appello di Brescia con sentenza n.444; e cioè che non si può negare il beneficio agli stranieri sprovvisti di un permesso di soggiorno di lungo periodo, perché ciò contrasta con le disposizioni contenute nella Direttiva comunitaria n. 2011/98/UE, che richiama il Regolamento 883/2004 nel quale sono indicate le prestazioni di welfare cui hanno diritto i cittadini stranieri, presenti sul territorio europeo, tra le quali rientra il bonus bebè.
Secondo la sentenza, le conseguenze del dettato dell’Unione europea in termini di diritto alle prestazioni è quella “diretta a tutelare economicamente la maternità e la paternità in modo continuativo fino al compimento dei tre anni del bambino, ed è corrisposta in modo automatico e non discrezionale laddove ricorrano i requisiti di reddito prescritti” e trattandosi di una norma sovranazionale non ha bisogno di essere recepita “e si colloca – per gerarchia delle fonti normative – al di sopra della legislazione nazionale imponendone la disapplicazione in caso di contrasto”.
Quindi, per il giudice di Teramo, qualsiasi disposizione nazionale che “ponga lo straniero lavoratore in una posizione di svantaggio rispetto al cittadino italiano riveste una illegittima portata discriminatoria, la quale si estende agli atti e comportamenti delle pubbliche amministrazioni che ne fanno attuazione”, compresa l’Inps.
A supporto delle argomentazioni, la sentenza, inoltre, richiama anche l’orientamento della Consulta, già ampiamente consolidato, laddove afferma che la nozione di soggiorno “non può essere ricollegata alla titolarità del permesso di soggiorno di lunga durata (…), ma semplicemente alla legalità del soggiorno, nonché al suo “carattere non episodico né occasionale”.
Dello stesso tenore è anche un altro verdetto del 23 novembre 2017 del Tribunale ordinario di Pescara (n. 921) in merito al mancato riconoscimento dell’assegno di maternità da parte del Comune di residenza a una cittadina straniera non comunitaria, titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari e non del titolo di lungo periodo. Anche in questo caso sia l’Inps che il Comune, nel difendere la decisione di negare la prestazione di welfare, si sono appellati al rispetto dell’articolo 74 del Testo Unico relativo alla tutela della maternità/paternità (n. 151/2001), che limita il beneficio ai titolari della carta di soggiorno di lungo periodo.
Sulla norma, però, ricorda la sentenza, c’è il parere della Corte Costituzionale, che nell’ordinanza n. 95 del 7 marzo-4 maggio 2017 aveva già stabilito come tale limitazione fosse “manifestamente inammissibile” richiamando il rispetto dell’articolo 12 della direttiva europea n. 2011/98/UE, nonché il ritardo dell’Italia nel provvedere al suo recepimento, laddove stabilisce che i cittadini di paesi terzi, ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, a norma del diritto dell’Unione o nazionale, devono poter beneficiare “dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, per quanto concerne (...) i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento CE 883/2004”.
Per il giudice di Pescara l’assegno di maternità rilasciato dai Comuni “rientra appieno nel settore della ‘sicurezza sociale’, perché i relativi requisiti di erogazione sono predeterminati (in base al reddito)”. Anche in quest’ultimo caso, perciò, la sentenza conclude affermando che “tutti gli organi dello Stato, comprese le pubbliche amministrazioni, hanno l’obbligo di applicare direttamente la direttiva dell’Unione e la disposizione nazionale contrastante, gerarchicamente subordinata, deve essere disapplicata”. “Parole inequivocabili – spiega Claudio Piccinini, coordinatore degli uffici Migrazioni e mobilità Internazionali di Inca – che non possono essere ignorate. L’Inps e il ministero del Lavoro hanno l’obbligo di interrompere immediatamente la condotta discriminatoria ai danni di cittadini stranieri rispettando e applicando integralmente le sentenze. Ciò consentirebbe di non prolungare all’infinito un contenzioso legale che comporta un costo insopportabile anche per la collettività”.