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(Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista a Laurent Vogel, direttore del Dipartimento di Salute e sicurezza dell’Istituto europeo dei sindacati, realizzata dal giornalista Marco Michelli, apparsa sul n. 1/2015 di “Ambiente & Sicurezza sul Lavoro”, delle Edizioni Epc Periodici)
D. Nel suo intervento al workshop di Roma di inizio dicembre (ndr. seminario “Sostenere crescita e competitività delle imprese promuovendo salute e sicurezza sul lavoro in tempi di crisi”, organizzato da ministero del Lavoro e Inail) ha espresso diverse critiche al quadro strategico 2014-2020, spiegando che sarebbe necessaria una strategia più concreta e più ambiziosa: quali dunque, a suo parere, i punti deboli?
R. I problemi principali sono la mancanza di azioni concrete sul piano legislativo e il modo superficiale di valutare l’organizzazione della prevenzione nei paesi dell’Unione Europea; inoltre, ci sono importanti carenze da risolvere nella normativa comunitaria. Prenda, ad esempio, la direttiva attuale sui cancerogeni. Fissa valori-limite che coprono meno del 20 per cento dei casi reali di esposizione professionale in Europa; trascura gli agenti cancerogeni generati dal processo di produzione come la silice cristallina o i vapori di diesel; ignora il ruolo delle sostanze tossiche per la riproduzione; non organizza la sorveglianza sanitaria dopo il periodo di occupazione. Tutto ciò è assurdo, quando si sa che i periodi di latenza dei tumori possono superare 30 anni.
Le direttive sulla movimentazione manuale dei carichi e sui videoterminali non consentono una prevenzione efficace delle patologie muscoloscheletriche, che colpiscono circa il 25 per cento dei lavoratori in Europa. Su questi problemi essenziali della normativa comunitaria, il quadro adottato dalla Commissione tace e non prevede azione alcuna. Osserva un silenzio pudico sul fatto che, in molti Stati membri, i servizi di prevenzione si siano ridotti a un negozio redditizio che non svolge un ruolo di prevenzione collettiva. Spesso la “promozione della salute” individuale è realizzata a scapito di un intervento collettivo sulle condizioni di lavoro.
La rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza manca in moltissime realtà. Senza controllo dai lavoratori, la prevenzione si riduce a un rito burocratico. Esiste virtualmente, sulla carta, nei sistemi di certificazione o in statistiche che non fanno emergere che una piccola parte della realtà. Un’altra carenza del quadro è di negare le diseguaglianze fra uomini e donne e l’impatto specifico di esse sulla salute e sicurezza. L’unica allusione al tema si limita alla tutela della gravidanza, come se le donne non fossero sfruttate anche da un’ineguale ripartizione del lavoro non remunerato e spinte verso la precarietà del lavoro a tempo parziale. Infine, quando la Commissione parla di favorire le piccole imprese, intende facilitare le pratiche di sub-appalti che consentono di ridurre la sicurezza ed “esternalizzare” i rischi di molte grandi imprese industriali.
D. Lei sostiene che il quadro non introduce svolte pratiche per la salute e sicurezza sul lavoro: su quali basi è fondata la sua considerazione? Quali soluzioni propone?
R. Siamo tutti d’accordo nel dire che le malattie causate dalle condizioni di lavoro richiedono più attenzione. La strategia precedente aveva privilegiato la riduzione degli infortuni. Secondo me, il valore aggiunto della politica comunitaria è maggiore nel campo della prevenzione dei problemi di salute, perché questi sono meno immediati, meno visibili e costano meno alle imprese. Il loro costo è sopportato principalmente dalla società e, purtroppo, dalle vittime stesse.
Molte patologie hanno un effetto cumulativo sull’intera vita, ma quando la Commissione europea parla dell’invecchiamento, lo riduce a un problema demografico. Non è cosi: l’invecchiamento è anche un processo sociale. Lavorare in difficili condizioni significa una speranza di vita in buona salute molto ridotta. Per me, le soluzioni si trovano in un’articolazione più corretta fra il ruolo dell’Unione Europea e quello di altri attori. La Commissione dovrebbe fare forse meno cose, ma concentrarsi su quelle essenziali e farle meglio.
La prima responsabilità europea consiste nel definire una normativa comune, ambiziosa. Come Etui abbiamo indicato chiaramente tre assi: una migliore normativa per la prevenzione dei rischi delle sostanze chimiche più pericolose (cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione, perturbatori endocrini); una normativa che affronti in modo complessivo i rischi ergonomici; una normativa specifica sui rischi psicosociali. È su questi tre elementi che sarà valutata la nuova Commissione.
D. Ritiene ci siano margini di intervento entro il 2020 o fino ad allora siamo in stallo?
R. Le cose possono cambiare se riusciamo a rilanciare la prevenzione “dal basso”. Per anni, la politica europea ha svolto un ruolo positivo nelle dinamiche nazionali. Per esempio, il dibattito italiano sul “testo unico” ha trovato uno sbocco anche perché c’era la necessità di applicare le direttive. La situazione attuale è differente. L’Unione Europea ha sostanzialmente abbandonato il campo della salute e sicurezza negli ultimi dieci anni. Nello stesso tempo, il bisogno di interventi comunitari resta immenso: ci sono disuguaglianze crescenti fra paesi europei e, in ogni singolo Stato, fra categorie di lavoratori.
L’Europa non può far finta che tutto vada bene solo perché le statistiche sugli infortuni dichiarati sono migliorate. Occorre, non solo per i sindacati ma per tutti gli attori della prevenzione, dare una maggiore visibilità alle malattie causate dal lavoro, al disagio in aumento, all’inesistenza della democrazia sui luoghi di lavoro, alle stragi silenziose che accompagnano la crescita del lavoro precario. Sulla base di questa visibilità, si deve lottare per far cambiare le cose.
Oggi, fare prevenzione è riconoscere che c’è un conflitto fra i profitti privati e la salute di chi produce i beni materiali. Dobbiamo ragionare in termini di rapporti di forza per cambiare la situazione. Un elemento che ci può aiutare è l’urgenza della difesa dell’ambiente, e si potrebbe realizzare una convergenza fra la difesa dell’ambiente stesso e quella della salute sui luoghi di lavoro. Abbiamo già osservato questo fenomeno nella lotta per difendere i principi più avanzati del regolamento Reach sulle sostanze chimiche, che a volte ha creato anche delle tensioni importanti.
D. Lei sostiene anche che si continua a sottintendere l’esistenza di una errata contraddizione fra il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’economia: può spiegarsi meglio?
R. Credo che insistere su possibili contraddizioni fra la salute e sicurezza, da una parte, e l’economia, dall’altra, ci rimandi indietro agli anni cinquanta, quando l’approccio dominante era volto a monetizzare la salute dei lavoratori: si faceva prevenzione solo se questa aumentava la produttività. La salute è un bene in sé, superiore ai profitti industriali. È l’organizzazione del lavoro che deve essere resa compatibile con la salute dei lavoratori e non l’opposto.
La tragedia dell’amianto ha causato crimini di massa in tempo di pace per permettere a pochi industriali di diventare miliardari. Del resto, sin dall’inizio della prima rivoluzione industriale, ci sono state recriminazioni contro ogni regolamentazione del lavoro, pensando, ad esempio, al divieto del lavoro infantile, che fu presentato come la rovina dell’economia europea nel secolo XIX. Per noi, un miglioramento delle condizioni di lavoro – realizzato su scala europea – rappresenta il quadro sul quale l’economia può svilupparsi, aumentando la qualità complessiva del lavoro: qualità delle condizioni di lavoro, democratizzazione della vita delle imprese, qualità ecologica e qualità dei prodotti o del servizio agli utenti.
A Roma avrei preferito discutere di tematiche concrete: i tumori professionali, i problemi muscoloscheletrici, le conseguenze del lavoro precario, il ruolo decisivo dei Rls, piuttosto che sui cosiddetti costi amministrativi della salute e sicurezza. Bisogna parlare senza ipocrisia: realizzare una prevenzione sistematica significa raccogliere, trattare, comunicare in permanenza una serie di informazioni critiche. Non si fanno piani di prevenzione senza avere discusso il Documento di valutazione dei rischi con i Rls, per esempio. Non si può lavorare sul territorio se le Asl non hanno accesso a informazioni essenziali.
D. Ritiene che manchi ancora una cultura della sicurezza o che ad aggravare il contesto sia stato quello che lei ha definito “il fallimento delle politiche di deregolamentazione”?
R. Centomila decessi per tumori professionali all’anno nell’Unione Europea; più del 50 per cento degli operai europei che ritengono di non essere capaci di lavorare fino all’età di 60 anni. Se non vogliamo parlare in “politichese” astratto, non vedo altra parola che definire la situazione un fallimento politico. Si passano giorni e mesi a discutere del formato ideale di un formulario sulla valutazione dei rischi per “semplificare” le cose ma, con l’eccezione di pochi paesi, non abbiamo registri sistematici sulla prevalenza dei tumori fra le diverse categorie professionali, non abbiamo la minima idea della prevalenza delle esposizioni a perturbatori endocrini o a nano materiali sui luoghi di lavoro.
La deregolamentazione è anche una fuga permanente dalla realtà dei luoghi di lavoro in innumerevoli commissioni e sotto-commissioni di valutazione burocratica, di individuazione delle “buone pratiche”, di discussioni senza fine sui costi e benefici senza volontà di azione. Gli inglesi lo dicono con una buona formula: “paralysis by analysis”. È quello che prevale oggi negli ambienti dell’Unione Europea.
D. Tralasciando il quadro strategico, quali le principali criticità che incontra nei tavoli di lavoro a cui partecipa?
R. Noi lavoriamo a diversi livelli. Nel Comitato consultivo di Lussemburgo che tratta di salute e sicurezza a livello europeo, c’è un atteggiamento cinico del padronato. Si è trovato in sintonia completa con Barroso e ha acquisito il sentimento che confrontarsi con noi fosse tempo perso. In questo modo non contribuiscono alla discussione con proposte concrete, ma si limitano a insistere sulla riduzione degli oneri per le imprese.A livello di categorie, la situazione è spesso più aperta. Alcune organizzazioni padronali accettano il confronto. Per esempio, c’è stato un accordo sulla salute e sicurezza dei parrucchieri che comporta molti elementi positivi per migliorare la prevenzione. Nell’edilizia e nel comparto del legno c’è una consapevolezza dell’alta prevalenza di tumori professionali e riusciamo ad avviare iniziative comuni. Anche il settore sanitario è aperto a una trattativa seria.
Sulla tematica dei tumori professionali, diversi governi appoggiano le nostre posizioni e chiedono alla Commissione una revisione immediata della direttiva e l’adozione di valori limiti per un minimo di 50 sostanze. Sono lieto che, durante la conferenza di Roma, il governo italiano si sia finalmente associato a questa richiesta che, finora, veniva soprattutto espressa da paesi dell’Europa del Nord. Adesso attendiamo atti concreti.
D. Una sua previsione su tempi e modalità per uscire dalla situazione di impasse della politica europea in materia di salute e sicurezza?
R. La storia non è scritta, si scrive ogni giorno con le nostre azioni. È volontà fatta di atti. Tuttavia, la Commissione non ha preso coscienza dell’urgenza. Il calendario della Commissione prevede passi lentissimi e tortuosi: valutazione delle direttive nel 2015, qualche riflessione negli anni successivi e forse un ripensamento prima del 2020. Sono convinto che possiamo accelerare le cose, ma dobbiamo costruire delle alleanze: con gli attori della prevenzione, con i governi più attenti a migliorare la prevenzione, con tutti i settori della popolazione che non accettano di vivere in una società dove crescono le diseguaglianze. Per noi, l’urgenza è di oggi. Nel 2015, il nostro impegno principale sarà la battaglia sulla prevenzione dei tumori professionali.