Un uomo che perde il lavoro, ha una moglie e un figlio disabile, deve accettare un nuovo impiego e finisce per fare il sorvegliante contro i furti in un ipermercato. Una persona comune in lotta per la propria dignità, davanti a un dilemma etico. Vincent Lindon ha vinto il premio di migliore attore al Festival di Cannes, per il ruolo di Thierry ne La legge del mercato, il film di Stéphane Brizé dal 29 ottobre nelle sale italiane (qui la recensione). La giuria dei fratelli Coen ha assegnato il riconoscimento a uno dei maggiori attori oggi, culmine di una carriera segnata dalla profonda consapevolezza, il pensare politico, l’attenzione nello scegliersi i film. A Roma per presentare la pellicola, abbiamo intervistato Lindon per RadioArticolo1, nella puntata del programma Tempi moderni.

 

Vincent Lindon, ne La legge del mercato lei è un ultracinquantenne che viene licenziato in tronco e deve convertirsi a un altro lavoro. Potremmo definire questo film come il calvario di un lavoratore che cerca il suo posto nella società? Quanto è importante rappresentare un mondo del lavoro che oggi significa prevalentemente licenziamenti e povertà?

In realtà non è importante che il protagonista abbia più di cinquant’anni. Questo non è un film sulla disoccupazione. E’ prima di tutto un'opera di cinema, con al centro un uomo che ha una moglie e un figlio. E’ un film di finzione, una piccola storia dietro alla quale c’è la grande storia del lavoro. E’ un film che parla anche della dignità di un uomo, che pone una grande domanda: saremmo pronti a fare qualsiasi cosa a qualunque prezzo? E ancora: l’essere umano ha un limite? Il coraggio si può interporre e impedire a una persona di farsi divorare dal mondo di oggi? Possiamo ancora resistere e dire no? A  tutto ciò si sommano poi le domande sul lavoro e sulla disoccupazione. Ma è innanzitutto un film sulla dignità dell’uomo, in un momento in cui dobbiamo chiederci: è possibile dire no, rifiutare un sistema che costringe a restare disoccupati e non avere soldi? E’ possibile dire no rifiutando di farsi schiavizzare?

Lei ha recitato in Welcome di Philippe Lioret, film del 2009 sul tema dei migranti. Come  attore ha sempre evidenziato una capacità di scegliersi le storie che interpreta, con particolare attenzione ai temi sociali e politici. Qual è la sua concezione di cinema? Crede che i film debbano e possano contribuire a cambiare un sistema sociale spietato?

Sì, è un ruolo del cinema, ma a condizione che il film non sia pensato per questo dal principio. Nel nostro caso, abbiamo fatto un film per raccontare la vita di un uomo con sua moglie e le sue difficoltà. Dietro c’è il tema sociale, ma in secondo piano come cornice. E’ un film  che passa dalla pagina cultura alla pagina società. Non è un film sul lavoro, per questo  c’è il documentario. Le notizie e i servizi del telegiornale ti raccontano in quattro minuti una storia con toni sensazionalistici, mentre le persone, gli spettatori al cinema hanno il tempo di soffermarsi sulla vita di quest’uomo, scoprirlo dentro la sua casa, nella sua testa, nella sua vita, nei pensieri, le pulsioni e le emozioni: dietro a questo in più si affronta un tema sociale. Penso che per il cinema sia obbligatorio parlare del mondo in cui viviamo: in futuro, tra quindici o trent’anni, quando le persone rivedranno il film si diranno “guarda, all’epoca in Francia si viveva così”. E’ giusto che il film mostri lo stato di un paese nel momento in cui è stato girato.

Ne La legge del mercato lei è l’unico attore di mestiere, recita accanto a non professionisti che interpretano se stessi, come il sindacalista Xavier Mathieu. Come è stato?

La nostra è una proposta cinematografica nuova, qualcosa che non è stato fatto prima. E’ la prima volta che si decide di mettere insieme un attore professionista, un attore noto, con una serie di attori non professionisti. E’ affascinante, e fa venire voglia alle persone di dire “vado a vedere questo esperimento”. Non si dica però che è un film neorealista: il neorealismo è una cosa di quarant’anni fa, erano quei film di Pasolini girati solo con attori non professionisti. Io rifiuto di inquadrare le cose e mettere delle etichette. In Francia di un attore si dice sempre “è il nuovo  Jean Gabin, il nuovo Marcello Mastroianni, il nuovo Vittorio Gassman”. Ma cosa vuol dire? Cos’è il nuovo? Ognuno di noi è unico, non si può sempre paragonare tutto a tutto. Allora questo è un film unico, un esperimento che abbiamo tentato: c’è un solo attore conosciuto, che sono io, e proprio per la mia presenza si è riusciti a trovare i finanziamenti per girare il film.

La sua prova può ricordare i dilemmi etici dei fratelli Dardenne in Due giorni, una notte: lì una donna deve convincere i colleghi a rinunciare al bonus per non essere licenziata. In entrambi i film viene raccontato uno scontro tra poveri, costretti a fare la guerra tra loro dalla logica perversa che regola il lavoro.

E’ terrificante: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Io non amo molto la parola “povero”, c’è qualcosa di peggio perfino dell'essere povero: essere precario. La precarietà oggi è evidente ed esiste più che mai: ci dividono per comandare, secondo la logica del divide et impera. Siamo come cani che lottano tra loro: le donne contro gli uomini, gli uomini poveri, precari e le donne povere e precarie, l'uno contro l'altro. La vita è durissima e bisogna portare a casa da mangiare la sera, per la propria famiglia, per il marito, la moglie e i figli: le persone non hanno scelta, non c’è abbastanza posto per tutti. Pensiamo alla violenza, la sofferenza, la disoccupazione, la vita in generale, la modernizzazione: sono i piccoli che combattono tra loro, è sempre una guerra tra poveri. Non ci sono i grandi contro i piccoli o i forti contro i deboli, ci sono solo i piccoli contro i piccoli. Questo è terribile, ed è un tema del nostro racconto.

Ma lei - legittimamente - respinge la definizione di film di denuncia.

Certo, non si deve mai fare un film per denunciare: se quello è l’obiettivo sarà sempre un film mancato. Prima di tutto bisogna raccontare una storia, e poi attraverso le immagini veicolare un messaggio, questo sì che è interessante. Per esempio nella scena che abbiamo girato nella casa mobile ci sono due uomini, due poveri in lotta tra loro: uno ha bisogno della casa e ha pochi soldi con sé, ma anche l’altro ha pochi soldi. Uno ha risparmiato per dieci anni, l’altro ha passato tutta la vita a mettere soldi da parte: entrambi lo fanno per avere una casa mobile. Ma la casa è una e uno dei due se ne dovrà separare. Questo l’aspetto più amaro: la lite tra due deboli, due piccoli che si scontrano, gradualmente si scaldano e diventano verbalmente violenti. La scena non era stata scritta con questo obiettivo: era pensata nell’economia della storia generale, ma questo è stato il risultato finale, il messaggio che consegna. Attenzione però: un film costruito solo su un messaggio è pesante, non ha intelligenza. Per questo il nostro film non dà ordini allo spettatore: non dice “bisogna pensarla così oppure no, questo è giusto e quello è sbagliato, questo è il bene e questo il male”. E’ stato fatto per mostrare uno stato delle cose, ed è lo spettatore che decide cosa pensare, cosa gli suggerisce. Trovo che questo renda lo spettatore responsabile, politico, adulto, lo obbliga a prendere decisioni, a reagire, sveglia la coscienza. Un film in sé non è mai politico, è politico sempre lo spettatore. Ecco perché amo La legge del mercato, lo difendo, viaggio per promuoverlo e sono venuto in Italia. Non è solo una questione promozionale: credo che sia giusto porre delle domande. Il cinema deve interrogarsi, l’arte deve chiedersi “come si vive in questa società?”. E fare un film con un attore o un’attrice conosciuti, come me, può aiutare a realizzare questa operazione.

*Maria Antonia Fama è giornalista di RadioArticolo1