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Più servizi, meno tasse, amministrazioni più snelle ed efficienti, minori costi istituzionali. Saranno questi, secondo lo Spi Cgil del Veneto, i principali risultati che si otterranno a partire da domenica se i cittadini decideranno di dire “sì” alle fusioni dei 26 comuni veneti coinvolti nella votazione. Per il sindacato dei pensionati, la trasformazione di queste 26 comunità in 10 Comuni (5 nel Vicentino, 2 nel Padovano, uno nel Rodigino, uno nel Trevisano e uno nel Bellunese) porterebbe ai circa 82 mila residenti coinvolti – un quarto dei quali (quasi 19 mila) di età superiore ai 65 anni – indubbi vantaggi. Quali? È presto detto. Il principale e più tangibile è quello delle maggiori risorse destinate ai “neonati” Comuni. In primis, le nuove realtà potrebbero contare sul contributo straordinario di circa 112 milioni di euro che in caso di fusioni lo Stato trasferirebbe nel complesso alle nuove amministrazioni spalmandoli in dieci anni. A questi si aggiungerebbero circa 5,5 milioni di euro che il Veneto stanzierebbe in tre anni ai nuovi enti. Insomma, le fusioni rappresenterebbero un “affare” da circa 118 milioni di euro suddivisi in vari periodi. Una vera e propria boccata d'ossigeno per queste 26 amministrazioni che negli anni hanno subìto una netta riduzione dei trasferimenti statali, passati in totale dai 19 milioni di euro del 2010 agli 11 milioni del 2018 (-42%).
“Con queste risorse aggiuntive – spiega Renato Bressan, segretario regionale con delega alla contrattazione sociale e al welfare – le nuove amministrazioni potranno abbassare non solo il livello dei tributi locali, ma anche delle tariffe dedicate ai servizi sociali erogati ai cittadini: rette delle case di riposo, servizi di assistenza domiciliare, pasti a domicilio, ma anche rette degli asili e delle materne, sconti per lo scuolabus e molto altro ancora. Tutte materie che possono diventare argomento di contrattazione fra i sindacati, fra cui lo Spi, da sempre in prima linea sul fronte della contrattazione sociale, e le amministrazioni locali”.
“A tal proposito segnaliamo che la legge di bilancio del 2018 consente ai nuovi Comuni, nati da processi di fusione, di evitare di mantenere tributi differenziati, attraverso l’istituzione dei municipi, ma di uniformare imposte locali uguali per tutti i contribuenti senza per questo perdere gettito fiscale. Va da sé che questa applicazione è decisamente più aderente al principio per il quale a parità di servizio erogato deve corrispondere una imposizione fiscale omogenea e non differenziata tra gli stessi contribuenti”, aggiunge Bressan.
Ma con la fusione si otterrebbero anche risparmi non indifferenti, come spiega ancora Bressan: “Le conseguenze positive della fusione si tradurrebbero anche in un sensibile abbassamento dei cosiddetti costi istituzionali legati alle indennità di funzione dei sindaci, vicesindaci e assessori oltre ai gettoni di presenza previsti per i consiglieri. Ma un risparmio più deciso lo si può ottenere pure grazie a una riorganizzazione della macchina amministrativa e in particolare dei costi fissi dei servizi che potranno comprimersi grazie a una più corposa massa critica”.
“Pertanto, come si può intuire, non si tratta solo di avere più risorse a disposizione, ma di come poi queste verranno utilizzate, verso quali funzioni, a quali platee di cittadini verranno rivolte e quali saranno i benefici che i cittadini di quelle comunità potranno realmente realizzare. Qui trova spazio la negoziazione sociale con i corpi intermedi. Un contributo di idee che le rappresentanze sociali unitariamente possono fornire dentro una nuova configurazione amministrativa, nel rispetto delle storie locali, ma anche in un consolidato rapporto democratico con i nostri rappresentati e più in generale con i cittadini di quelle comunità”, conclude il sindacalista.