Le istituzioni stanno celebrando la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne con molta ipocrisia. La comunità internazionale non si preoccupa di domandarsi come mai in un paese come il Cile, di cui ricordiamo ancora lucidamente la dittatura del '73, si torni a usare la violenza contro le ragazze, contro le studentesse che sono nelle piazze, contro le lavoratrici, fino ai femminicidi, perché tali sono quelli di Daniela e di Isabella”. Lo afferma la responsabile delle politiche di genere della Cgil Susanna Camusso ai microfoni di RadioArticolo1.

Così come, aggiunge la dirigente sindacale, “la comunità politica dovrebbe occuparsi della repressione di un grande movimento paritario come quello curdo, e quindi anche della violenza con cui l'esercito turco e i jihadisti si stanno scatenando in particolare contro le militanti curde”. In questo scenario, aggiunge Camusso, “c'è un tratto che unisce la scena pubblica con la legittimazione dei comportamenti violenti che si esercitano poi prevalentemente all’interno delle ‘mura’. E uso il termine 'mura' non a caso, perché un luogo di lavoro in fondo non è molto diverso da una famiglia. Però, mentre si urla molto quando qualcosa succede per le strade, c’è grande disattenzione rispetto a ciò che accade in luoghi cosiddetti ‘protetti’. Le violenze nei luoghi di lavoro sono una realtà che conosciamo ancora poco, perché ovviamente è difficile denunciare quando si è di fronte a un doppio ricatto: uno di tipo sessuale, l’altro basato su una logica di possesso e di predominio legato alla retribuzione, alla carriera, al mantenimento del posto di lavoro”.


foto di Simona Caleo

Insomma, “una giornata molto triste ribadisce Camusso perché non si può non avere attenzione al fatto che stiamo celebrando molte donne che non sono più tra di noi, che non possono prendere parola. Con il difetto di fondo di continuare a far pensare che sono proprio le vittime, e non i carnefici, a dover risolvere il problema”.

Alla base di questi comportamenti c’è anche una condizione di dipendenza economica a cui sono costrette molte donne, ovvero “il più grande strumento per poterle mantenere in uno stato di sudditanza, in una condizione di vittimizzazione primaria o secondaria, senza avere la possibilità di scegliere liberamente”. Eppure si potrebbe dare il segno di una volontà effettiva di cambiamento, ad esempio cominciando a frenare il ricorso al part-time involontario: “Si fa un uso ingiusto da parte delle imprese di queste forme di flessibilità – spiega Camusso – e così anche un’ulteriore violenza, perché ci si appropria di quello che invece era uno strumento che le donne stesse chiedevano per la loro libertà e per la loro organizzazione”.