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Il 23 giugno 2016, la maggioranza degli elettori britannici ha votato in favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Come ha osservato il filosofo tedesco Habermas, il populismo è riuscito a battere il capitalismo nel suo stesso paese d’origine. Un fatto d’inaudita gravità, e senza precedenti. Anche se in verità, e per dirla tutta, almeno altrettanto scalpore avrebbe dovuto provocare la notizia, non dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, ma finalmente della sua effettiva entrata. Avrebbe cioè fatto ugualmente notizia se la maggioranza del popolo britannico, e la sua élite politica, si fossero decisi, una volta per tutte, a entrare davvero nell’Ue. E a farlo con entrambi i piedi: non solo con quello del libero mercato, ma anche con quello della cooperazione.
Fin dal 1973, data di ingresso del Regno Unito nell’Ue – e ininterrottamente dalla Thatcher a Blair, fino a Cameron – nei riguardi di Bruxelles questo Paese ha sempre condotto una politica fatta di riserve, seguendo la massima “lavami, ma non mi bagnare”, per usare ancora un’espressione di Habermas. Adesso, invece, i giochi sono fatti. Ci si chiede ora cosa succederà, mentre il dibattito continua a essere dominato da argomenti populisti e demagogici. I media europei hanno per esempio dato ampio risalto alcuni giorni fa alle dichiarazioni di Theresa May, nuovo leader del partito conservatore britannico, e nuovo primo ministro, secondo la quale la permanenza nel Regno Unito dei cittadini europei lì residenti – siano essi lavoratori, studenti o pensionati – non sarà scontata dopo che sarà stato formalizzato e compiuto il processo di uscita di questo paese dall'Unione.
La posizione giuridica (e la quantità) dei cittadini europei nel Regno Unito, sostiene la May, “sarà negoziata in parallelo alla libertà di stabilimento dei cittadini britannici nell’Unione europea”. Secondo il quotidiano britannico The Independent, la May avrebbe dichiarato che garantendo ai cittadini Ue di poter restare nel Regno Unito anche in seguito alla Brexit si avrebbe “un enorme afflusso di cittadini dell’Ue che, avendo questa possibilità, vorrebbero tutti quanti stabilirsi qui”. Ma per ora, e per un periodo transitorio durante il quale saranno negoziati i termini dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, il diritto sociale derivante dall'applicazione dei regolamenti e delle Direttive europee resta pienamente applicato.
In particolare, le norme europee sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale continueranno ad applicarsi nel Regno Unito, come in tutti i Paesi membri dell'Ue, dello Spazio economico europeo (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) e in Svizzera. Continuerà ugualmente ad applicarsi il diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente, come stabilito dalla Direttiva 2004/38. Questo periodo dovrebbe durare al massimo due anni, a partire dalla notifica ufficiale al Consiglio da parte del Regno Unito. Per il resto, i contenuti, gli sviluppi e la durata dei futuri negoziati in seno alle istituzioni europee sono attualmente sconosciuti. Difficile dire a caldo cosa succederà nei prossimi mesi e anni.
Le previsioni degli analisti sono del resto le più disparate. C’è chi prevede e preannuncia catastrofi, chi in fondo comincia a pensare che il cambiamento sarà meno spettacolare del previsto e di quanto immaginato. Persino il leader del Leave cerca in questi giorni di fare buon viso all’Ue. Il Regno Unito – dice in sostanza Boris Johnson – resterà sempre parte dell’Europa e offrirà collaborazione su tutti i temi, dalla politica estera al terrorismo. Anche dopo la Brexit, i cittadini Ue che vivono nel Regno Unito “avranno i loro diritti pienamente difesi e lo stesso varrà per i cittadini britannici che vivono nell’Ue”. Questi “potranno ancora andare a lavorare nell’Ue, vivere viaggiare, studiare, comprare case e stabilirsi” in qualsiasi altro Paese dell’Unione. Ma come siamo arrivati a questo punto?
L’involuzione delle politiche nazionali
Volendo stabilire un punto d’inizio, non troppo lontano, potremmo partire da aprile 2013, quando con una lettera congiunta alla Presidenza dell'Unione europea, i ministri rappresentanti di Austria, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito hanno chiesto a gran voce una revisione delle norme comunitarie e sanzioni più severe per limitare la libera circolazione dei cittadini Ue e delle loro famiglie. L'argomento principale era che “questi migranti provenienti da altri Stati membri causano costi aggiuntivi alla società, in particolare per l’accesso all’istruzione, all'assistenza sanitaria e a un alloggio decente. Oltre alla pressione sui servizi locali essenziali, un numero significativo di nuovi immigrati accede ai benefici sociali nei Paesi ospitanti, spesso senza un vero e proprio diritto, mettendo a dura prova i sistemi di protezione sociale nei paesi ospitanti”.
La Commissione europea aveva reagito otto mesi dopo, sostenendo che nessun dato conferma che questi cittadini siano dei profittatori, né che la loro presenza costituisca un onere per i sistemi sociali. Ma questo non è servito a placare le acque. In seguito a questa lettera congiunta, esponenti politici di primissimo piano, soprattutto di Germania, Regno Unito e Paesi Bassi, non hanno infatti perso occasione per avanzare proposte di revisione delle regole comunitarie sulla libera circolazione dei lavoratori. Sullo sfondo, l’idea secondo cui i lavoratori immigrati siano sì utili all’economia nazionale ed europea, soprattutto quando pagano contributi sociali e imposte, ma non quando ricevono le conseguenti prestazioni sociali.
Secondo i conservatori britannici, gli “immigrati” europei dovrebbero essere esclusi dalle prestazioni legate al lavoro, come la disoccupazione, durante i primi quattro anni di residenza nel Regno Unito. E se i loro figli non risiedono nel Regno Unito, dovrebbero essere esclusi anche dagli assegni familiari. In questo clima particolarmente caldo, il Labour ha scelto di cavalcare gli stessi argomenti. Secondo la deputata ed economista Rachel Reeves, ministro ombra del Lavoro e delle pensioni, "anche il Labour dovrebbe frenare l'accesso alle prestazioni sociali da parte degli immigrati provenienti da altri paesi Ue". Secondo Reeves, "le persone che arrivano dai paesi dell'Unione europea non dovrebbero avere accesso ad alcuna indennità di disoccupazione, almeno durante i primi due anni di residenza nel Regno Unito".
Secondo i conservatori tedeschi, gli importi degli assegni familiari dei lavoratori stranieri dovrebbero invece essere modulati a seconda del Paese in cui risiedono i figli, mentre altri Stati membri hanno scelto vie ancora più dirette e sbrigative. Il Belgio, primo tra tutti. Tra il 2008 e il 2015, più di 10mila cittadini europei sono stati espulsi d’autorità da questo Paese. Non per ragioni legate a eventuali frodi o abusi, e neanche per motivi, per così dire, di “ordine e sicurezza”. Questi cittadini europei sono stati allontanati dal Belgio per ragioni “economiche”. In media, circa il 10% dei cittadini colpiti da un ordine di espulsione è di nazionalità italiana. Un migliaio, quindi. E il fenomeno sta continuando anche nel 2016.
Il governo belga giustifica tali decisioni di espulsione (tecnicamente, “ordini di lasciare il territorio”) sostenendo che queste sono basate sul diritto dell’Unione europea. In altre parole, sarebbe l’Unione a chiederle, “non essendo di certo l’obiettivo dell’Europa promuovere il turismo sociale”, come ha affermato recentemente il ministro degli Interni Teo Franken, in risposta a un’interrogazione parlamentare di un deputato dell’opposizione. Queste pratiche sono invece discutibili, da un punto di vista sia giuridico che economico. Legalmente, le espulsioni di questi cittadini dell’Ue si basano su un’interpretazione strumentale e discutibile del diritto dell'Ue, che contraddice la lettera e lo spirito della costruzione europea. Nel 1957 (Trattato di Roma), i fondatori della Comunità economica europea (Cee) avevano ben chiaro in mente che la costruzione del “mercato unico" richiedeva la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione dei lavoratori, e che l’accesso alla previdenza sociale dovesse essere – per conseguenza – un pilastro della libera circolazione. Doveva essere, cioè, una libertà “economica” fondamentale, oltre che sociale, dei lavoratori, senza la quale nessun’altra libertà economica, e quindi nessun mercato, sarebbe stato possibile.
Dal punto di vista economico, tutti gli studi esistenti, tra cui quelli della stessa Commissione europea, hanno dimostrato che la migrazione non è una minaccia per i bilanci dei Paesi d’accoglienza. Al contrario, il valore del contributo finanziario che la popolazione straniera apporta alle casse dello Stato sotto forma di imposte fiscali e contributi sociali è, nel suo insieme, superiore a quello degli aiuti e delle prestazioni che a vario titolo, gli stranieri ricevono dallo Stato. In Belgio, secondo l’Ocse, il contributo fiscale netto di una famiglia di stranieri oscilla tra i 9mila e i 17mila euro l’anno. A contare è dunque l’effetto demagogico, non certamente quello economico.
Per porre un freno a questa pratica abusiva e ingiusta, insieme al sindacato belga Fgtb, l’Inca Cgil ha redatto e depositato nelle mani della Commissione europea un dossier giuridico di oltre 100 pagine, che prova – con fatti, testimonianze e cifre – che il comportamento delle autorità belghe vìola il diritto europeo, e precisamente la Direttiva 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini europei, e il Regolamento 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
La Commissione europea, che appena due o tre anni fa osava sfidare gli argomenti xenofobi e populisti di certi Stati membri, si sta ormai allineando su posizioni – per cosí dire – di estrema prudenza. Non volendo contrariare troppo i governi conservatori, e non potendo neanche dar loro ragione sul piano giuridico, l’esecutivo di Bruxelles si rifugia ora dietro argomenti del tipo: “Non rientra nei poteri della Commissione esaminare le valutazioni effettuate dalle autorità nazionali nell'esercizio delle loro funzioni, né valutare la situazione di fatto per quanto riguarda singoli casi” (lettera della Commissione europea all’Inca Cgil, dell’11 luglio 2016). (1/continua)
Carlo Caldarini è direttore dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa