Il buco nero delle politiche liberiste, che determina lo scoppio inevitabile della crisi, è la proiezione strategica delle attività economiche verso l’esterno. Cioè, ogni paese mira preliminarmente alla riduzione del salario e orienta i propri meccanismi produttivi verso l’esportazione. Questo puntare ogni risorsa verso i mercati esteri comporta un sacrificio della domanda interna e postula delle esasperate forme di flessibilità e precarietà del lavoro, celebrate quali condizioni della competitività.

Il paradosso delle politiche liberiste è però che, se tutti i sistemi produttivi mirano a esportare, non si capisce a quale figura sia destinata la merce, il servizio, il bene. Per rispondere agli imperativi della concorrenza, e per conquistare fette sempre nuove di mercato, le aziende ricorrono all’ossessiva formula della produzione per la produzione. E, accantonato il tema del consumo, ordinano la contrazione dei diritti. Ma neppure questo basta, per cui decidono di dirottare altrove gli investimenti.

Se da un lato questo volgersi al mercato globale comporta il coinvolgimento di sempre nuove aree del mondo nelle dinamiche della tecnica e della concorrenza, dall’altro proprio i bassi salari e la flessibilità comprimono le capacità di consumo. Il progetto liberista, che raccomanda austerità all’interno e dirottamento all’esterno dei consumi e degli investimenti, non funziona per via delle sue contraddizioni insolubili.

I nuovi mercati forniscono certo manodopera a più bassi costi, ma proprio per questo non dispongono ancora delle risorse, delle infrastrutture, delle istituzioni per la certezza del mercato e dei soggetti cui rivolgersi per l’allargamento dei consumi. L’impresa raggiunge il suo obiettivo di rimarcare i segni della solitudine del lavoro, ma – con la disoccupazione e la recessione – il trionfo del mercato non trova più disponibile il consumo necessario per la valorizzazione del capitale. Le imprese italiane che meglio reagiscono alla crisi sono quelle che hanno un profilo volto all’esportazione. Le altre, quelle vincolate al mercato interno, stentano, perché i loro prodotti urtano con una disoccupazione ferma al 12,8 per cento che fa da ostacolo al rilancio dei consumi.

Il liberismo ha un volto autodistruttivo perché con le delocalizzazioni (gli investimenti diretti all’estero sono quasi il 30 per cento del Pil in Italia, e solo in una minima parte queste uscite sono compensate dall’attrazione di investimenti di nuovi capitali stranieri) uccide proprio il suo presupposto ideologico, il mitico consumatore finale. Per curare questo forte scompenso tra l’esodo dei capitali e la modica attrazione di flussi di denaro estero, occorrono delle incisive politiche pubbliche, delle scelte strategiche nelle politiche industriali.

E invece della progettazione di nuove politiche, il governo prosegue con la privatizzazione di ciò che resta di pubblico, confidando nella spontanea trasformazione in capitale della nuova grande liquidità di denaro messa in circolazione dal bazooka di Draghi. In attesa che il mercato corregga il mercato ci sono elevati costi umani che minacciano la tenuta delle stanche democrazie europee.