L’aumento degli infortuni mortali nei primi 4 mesi dell’anno mal si concilia con la sostanziale invarianza dei dati annuali forniti dall’Inail nel rapporto presentato ieri alla Camera dei deputati. O meglio, spiega l’Inca in una nota, se è bastata una seppur timida ripresa dell’occupazione a far aumentare i morti sul lavoro nel 2018 (286 denunce fino ad aprile: 24 in più rispetto al 2017), la tendenza alla riduzione del fenomeno, a cui ci ha abituato l’Istituto assicuratore almeno negli ultimi 5 anni, rischia di essere solo un risultato “virtuale” e non sostanziale.

Se i morti crescono con l’aumento degli occupati, il fenomeno resta tale e quale alle dimensioni ante crisi, o addirittura potrebbe essere peggiorato, considerando le scarse informazioni sugli incidenti che investono le nuove figure professionali della gig economy, come i rider, ma anche studenti impegnati nei progetti di alternanza scuola lavoro, per i quali le tutele sono tutt’altro che scontate.

“Di tutto questo – è la  critica espressa da Silvino Candeloro, del collegio di presidenza Inca - non c’è traccia nel rapporto annuale di Inail, che si limita a distinguere le denunce di infortuni tra quelli avvenuti in azienda e gli altri occorsi nel tragitto casa lavoro e viceversa (in itinere), applicando un criterio di classificazione generica, che non dice nulla o quasi del fenomeno, pur sottolineando come ‘rilevante per la valutazione accurata delle politiche e delle azioni di prevenzione’ il fatto che gli incidenti ‘in itinere’ abbiano rappresentato nel 2017 il 19% del totale delle denunce”. Tradotto in valori assoluti: a fronte di 641 mila denunce (in calo rispetto al 2016 di appena lo 0,08%), gli infortuni riconosciuti sul lavoro sono poco meno di 417 mila.     

E tutto questo mentre gli addetti alla gig economy crescono in maniera dirompente: secondo l’Istat, si sono quadruplicati negli ultimi anni, passando da meno di 100 mila persone coinvolte prima del 2010 a quasi 1.800.000 del 2016. Si tratta di un vero e proprio esercito di lavoratori addetti prevalentemente alle consegne a domicilio di cibo e altre merci, per i quali il rischio di subire un incidente è altissimo, considerando che usano propri mezzi per lavorare.

“L’esposizione di Inail – osserva ancora Candeloro – non tiene conto dei livelli di rischiosità legati alle mansioni e non analizza neppure i carichi e i ritmi di lavoro, cui sono sottoposti i lavoratori, che da nostre indagini empiriche risultano molto spesso superiori ai livelli medi. Un aspetto che, possiamo essere certi, incide fortemente sullo stato di stress individuale”. “I numeri resi noti ieri dal Presidente Inail – aggiunge - avrebbero meritato una maggiore articolazione e approfondimento qualitativo. Cosa che non è avvenuta. Da oltre mezzo secolo, si continua a morire nello stesso modo, con cadute dall’alto in edilizia, oppure inalando sostanze tossiche, come è successo purtroppo recentemente nel settore metalmeccanico”.

Per Inca, perciò, oltre ai controlli, importantissimi, è indispensabile sviluppare misure di informazione e di formazione in ogni luogo di lavoro e un’attenzione particolare a verificare quanto siano aderenti alle reali condizioni di lavoro i Documenti di valutazione dei rischi, che tutte le aziende, piccole e grandi, sono tenute a redigere e ad aggiornare, ma che invece spesso, accusa Candeloro, sono “un prodotto molto approssimativo, nonostante il d.lgs 81/2008, li consideri come strumenti fondamentali di prevenzione”.

Altrettanto carente, secondo l’Inca, è l’esposizione dell’Inail sulle denunce di malattie professionali (58 mila nel 2017, duemila in meno rispetto al 2016): “Ci saremmo attesi – osserva ancora Candeloro - che si descrivesse in termini specifici l’argomento delle patologie da lavoro emergenti, come i tumori e quelle riconducibile allo stress, derivanti anche dall’uso di nuove tecnologie e dai nuovi modelli organizzativi e dalla esposizione alle nuove sostanze pericolose”.

Un contesto che amplifica la sottostima delle malattie professionali, il cui fenomeno è ben descritto dalla ridottissima percentuale di riconoscimento del nesso causale (soltanto il 33% delle denunce) da parte dell’Istituto assicuratore. “La complessità delle procedure e l’altissima probabilità di una risposta negativa a una domanda di tutela – chiarisce Candeloro – spesso induce i lavoratori stessi a non denunciare patologie professionali conosciute, anche in presenza di una documentazione sanitaria che ne accerta il nesso con il lavoro svolto”.

In buona sostanza, si tende a rinunciare a qualsiasi rivendicazione e ad evitare che una eventuale inidoneità lavorativa accertata dal medico competente si risolva in una lettera di licenziamento. “Su questo è davvero inquietante che il Presidente dell’Inail – incalza Candeloro -, nonostante la promessa dell’Istituto di attivarsi per incoraggiare il reinserimento lavorativo dei disabili, non abbia speso una parola, né abbia preso in considerazione il ruolo importantissimo che gli Rls possono svolgere per attivare politiche virtuose nelle aziende”.