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Nell’ultimo numero del “Mulino” (n. 4 del 2015) è apparso un articolo di Stefano Zan, dal titolo “La crisi dei corpi intermedi”, che è opportuno riprendere come base di una discussione. Il punto di vista dello scritto è critico sul sindacato e, nel complesso, il saggio pare consenziente verso l’azione del governo che ne contesta alla radice le funzioni. Ma non è certo questo atteggiamento simpatetico dell’autore verso l’esecutivo che conta rimarcare o contestare. È invece il criterio definitorio adottato, quello dei corpi intermedi, che pare suscettibile di una valutazione critica.
Se il sindacato viene rubricato, dal punto di vista concettuale, come un corpo intermedio, è quasi naturale, come conseguenza analitica del postulato, che esso finisca per configurarsi come un’organica parte di mezzo che, a seconda dei punti di vista, ostacola o coadiuva in maniera sussidiaria il cammino del potere. Rispetto al corpo intermedio che rallenta la decisione, o mostra la sopravvivenza di legami comunitari già dati, esiste, in un altro luogo ben definito, il bene generale che risplende come una dimensione conoscibile e certa.
La categoria di corpo intermedio ha palesi ascendenze medievali e postula un definitivo congedo da ogni visione conflittuale del mondo sociale. Appartiene alla teologia politica e alla dottrina sociale della chiesa la credenza per cui i corpi collettivi, disseminati nei territori, confidano nella sempre garantita ricomposizione in una struttura armoniosa dell’essere. Questa compattezza dell’ordine sociale esclude il caos, il disturbo, mentre l’unità e la differenza si intrecciano tra loro senza traumi e contrasti. E proprio su di una nostalgia di Medioevo poggia la visione aristocratica di Montesquieu, che si affida agli antichi ordini, e ai loro peculiari privilegi e immunità, per contenere il potere altrimenti esorbitante della moderna sovranità dello Stato.
Soprattutto Tocqueville nota in America il ruolo svolto dalle associazioni di ogni genere e le raffigura come il momento cruciale per il funzionamento e il radicamento delle democrazie moderne. Il fenomeno dell’associazionismo democratico non è in alcun modo la riesumazione delle competenze di antichi corpi intermedi. Si tratta invece di soggetti sociali che, lungi dall’essere la sopravvivenza di varianti degli ordini corporativi, sono l’espressione dello sradicamento tipico della società degli individui. Il sindacato è il segno della fine delle strutture sociali arcaiche, cioè dei legami ascrittivi disegnati entro un ordine gerarchizzato, non il loro recupero.
Per questo la definizione dei sindacati come corpi intermedi destinati a difendere antiche postazioni è del tutto fuorviante e restrittiva. Non è concepibile un corpo intermedio senza il rinvio a una visione unitaria e gerarchizzata del mondo. In un’ontologia dell’essere sociale, dove le parti sono spontaneamente orientate verso il bene supremo, non è concepibile alcun conflitto per i diritti e le risorse scarse. In un mondo incantato dalla teologia e retto dalla mistica del bene comune, compaiono corpi intermedi, ma non soggetti sociali.
E però i sindacati sono soggetti sociali che organizzano un conflitto in virtù dell’adesione libera di individui consapevoli dei loro interessi e in lotta per nuovi diritti. Non sono corpi intermedi con interessi organici che vibrano come appendici di un bene comune superiore. Quando Zan parla di potere di veto e degli sconfinamenti del sindacato, e lo invita a comportarsi come un corpo intermedio, recupera i motivi di una teologia politica sorda verso le ragioni del conflitto. Non c’è una crisi dei corpi intermedi, perché nel moderno esistono soggetti sociali più o meno combattivi nella lotta contro le nuove diseguaglianze, non i fantasmi dei corpi intermedi con prerogative rigide.