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La Cgil ha incassato un primo importante risultato della sua #SfidaXiDiritti. Lavoro e diritti nel lavoro, derubricati a privilegi da abolire in nome di un’idea malata di modernità, sono tornati al centro del dibattito. Se ne discute, se ne parla in tv, sul web, nell’informazione cartacea e soprattutto sono tornati a parlarne, arrivando persino a ipotizzare interventi correttivi, i rappresentanti di quella stessa politica che per mesi aveva liquidato il problema come un non-problema.
Va tutto bene, ci dicevano, siete voi a non capire. Per mesi ci hanno riempito la testa di termini importati dall’inglese, oltre che di risentimento verso chi qualche diritto – frutto non di regali, ma di conquiste della stagione precedente – lo aveva, spacciando la formula “meno diritti uguale più occupazione” come panacea, drogandola con una consistente iniezione di contributi a pioggia collegati alle neo-assunzioni.
E invece era come la storia di quella famosa bevanda piena di zucchero e intrugli vari, che non cura nessuna malattia, ma va giù che è una bellezza. Così il Jobs Act e le misure collegate. Appena finiti gli incentivi, e il loro potere addolcente, si è visto che non solo l’occupazione, quella buona e quella più necessaria, la giovanile, non cresceva, ma che nel frattempo tanti contratti venivano sostituiti dai voucher.
La Cgil, che in un generale clima di ostilità e diffidenza aveva lanciato l’allarme su quella ricetta sbagliata – i diritti vanno estesi non eliminati –, tra un’accusa di “gufare” e l’altra di essere superati, proprio come i diritti del lavoro, ha trovato nei tre quesiti referendari e nella Carta dei diritti fondamentali del lavoro la via per reagire.
Il 18 gennaio dello scorso anno, in una gelida giornata romana, da piazza dei Cinquecento, davanti alla Stazione Termini, zona di continuo transito e di viavai intenso, scelta per sottolineare che quell’iniziativa riguardava tutti, ma proprio tutti, sono stati presentati alla stampa i referendum e la Carta dei diritti, una sorta di Statuto 2.0, perché proiettato in avanti, a riconoscere i diritti fondamentali del lavoro in capo alle persone indipendentemente dal tipo di professione svolta. Un’innovazione forte e necessaria in un mondo del lavoro diverso dal 1970 e in continuo e rapido cambiamento.
Da quel giorno di un anno fa, la Cgil si è impegnata a fondo – anche se nel clima drogato e distratto dei 12 mesi trascorsi, di quell’impegno si è parlato poco – per raccogliere le firme necessarie alla presentazione dei quesiti referendari e della proposta di legge di iniziativa popolare sulla Carta. Mentre in tanti (troppi) la accusavano di immobilismo, la Cgil sceglieva la sua strada per riportare il tema del lavoro al centro, sfidando – di fronte all’assoluta indisponibilità del governo e dei suoi massimi rappresentanti ad aprire un dialogo e a trovare quel punto di incontro che oggi in tanti propongono come soluzione facile e ottimale – la politica dei diritti al ribasso, dei lavoratori che si devono accontentare dei voucher o di un lavoro purché sia.
A giugno, dopo aver raccolto oltre tre milioni di firme, la Cgil ha presentato i tre quesiti referendari in Cassazione. Il 29 settembre la consegna dell’altro milione di firme per la presentazione della proposta di legge di iniziativa popolare sulla Carta. Un lavoro immane, realizzato da tutte le sue strutture, a tutti i livelli, in tutta Italia. Così mentre la politica “giovane” e “veloce” perdeva di vista i bisogni veri del Paese, la Cgil ha mantenuto la barra dritta e ha portato a casa un risultato importante, anche se non sufficiente. Dopo l’11 gennaio, quando la Corte Costituzionale deciderà sulla legittimità dei tre quesiti, la #SfidaXiDiritti riprenderà. Il clima però stavolta è cambiato.