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Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare: sottoterra. Da alcune settimane è partita, soprattutto in Sardegna, una campagna diffamatoria nei confronti del lavoro che si svolge in miniera. Mass media, social e carta stampata non risparmiano colpi. La destra, quella fuori e quella dentro il governo nazionale, mena fendenti all’indirizzo di chi, in virtù del proprio status di prestatore d’opera “alle dipendenze”, le tasse le paga tutte, perché gli vengono trattenute alla fonte, versa i contributi e alla fine di un percorso lavorativo (spesso accidentato), nel rispetto delle leggi, percepirà una misera pensione.
La campagna si basa sulle dichiarazioni di un ex minatore che, a un quotidiano dell’isola, ha spiegato con dovizia di particolari tutti gli stratagemmi adottatti per andare in pensione dopo 35 anni senza muovere un dito, e che è stato preso a simbolo di una classe di lavoratori che truffa le imprese, lo Stato e le amministrazioni locali. Le sue parole hanno fatto il giro di gran parte degli organi di informazione e dei salotti televisivi, con il risultato che, pur non riuscendo a sporcare l’immagine del popolo delle miniere, in più di un rotocalco (sempre, per lo più, tra quelli di destra), è stata messa in discussione la durezza del lavoro, le condizioni di insalubrità e il pericolo costante nei cantieri in sotterraneo.
Frane, esplosioni, allagamenti, gas tossici sono passati in second’ordine rispetto alle dichiarazioni condite di falso del sedicente ex minatore. Da (autentico) ex minatore e da ex dirigente del sindacato del settore, in questo breve spazio, mi preme sottolineare con forza che al buio delle gallerie nelle viscere della terra sono cresciute, soprattutto dalle nostre parti, nel Sulcis Iglesiente, intere generazioni di sindacalisti che giorno dopo giorno hanno dato un gradissimo contributo al mondo del lavoro. Tutte conquiste pagate con sacrifici e, talvolta, con il sangue.
La verità è che quando attaccano il lavoro, in qualsiasi settore, attaccano la parte più sana della società. Per questo, oggi, ho deciso di rispondere alle polemiche strumentali innescate da quelle dichiarazioni con l’immagine di un uomo, figlio della miniera. Si chiamava Sergio Fonnesu, oggi non è più con noi, e lavorò alla San Giovanni, nell’Iglesiente, fino alla pensione. Aveva i titoli e l’esperienza per fare il caposervizio, conosceva a menadito tutti gli impianti e i macchinari del sottosuolo. Riusciva a garantire assieme ai suoi compagni di lavoro le condizioni di sicurezza e la continuità di marcia degli impianti. Per i superiori, per il suo responsabile e per l’azienda meritava la promozione. Sergio Fonnesu decise di rimanere operaio a vita e scelse la Cgil.
Ancora oggi lo ricordano in tanti, con la sua borsa di pelle stracolma di attrezzi all’interno delle gallerie o nei fronti di scavo. Era uno dei primi a entrare e quasi sempre l’ultimo a uscire, ogni giorno. Come lui, tantissimi altri: chi forava la roccia, chi armava le volate con la dinamite, chi sgombrava il materiale abbattuto, chi lo arricchiva nelle laverie. Immagini di straordinaria fatica quotidiana che il sindacato rappresenta e ha sempre rappresentato. In qualsiasi settore, dalle miniere alle fabbriche, dai campi alle raffinerie, dagli ospedali alle scuole. Il lavoro che ha fatto e saprà ancora far grande il nostro paese.