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Nel presentare la relazione annuale dell’Inps, il suo presidente Tito Boeri ha avuto il merito di segnalare la drammatica situazione della povertà in Italia e come la crisi abbia riportato indietro le lancette della storia. Abituati ormai a pensare alla povertà in termini relativi, di troppo lento miglioramento delle condizioni dei meno abbienti rispetto al resto della popolazione, dobbiamo ora confrontarci con una realtà nella quale ritornano protagoniste la povertà assoluta e la deprivazione materiale.
Dal canto suo, anche l’Istat ha appena presentato sul tema i dati aggiornati, da cui emerge che in Italia la povertà assoluta è raddoppiata dal 2005 al 2014: le famiglie povere sono passate dal 3,6% al 5,7%, gli individui poveri dal 3,3% al 6,8%. I due milioni di poveri assoluti del 2008 sono diventati oltre 4 milioni nel 2014, anche se la situazione è lievemente migliorata rispetto al 2013; peraltro, da quest’anno, l’Istat ha adottato una diversa metodologia di calcolo, che riduce di oltre 1,5 milioni il numero dei poveri assoluti.
Lo stesso governo dovrebbe presentare a brevissimo un ben strutturato Piano nazionale per la lotta alla povertà. Ce ne sarebbe davvero bisogno, perché, come pure segnala il presidente dell’Inps, anche il confronto internazionale evidenzia come l’Italia sia fra i paesi che sono stati meno capaci di proteggere dagli effetti della crisi i propri cittadini e, in particolare, le categorie più deboli, fra i quali i giovani e coloro che devono fronteggiare la perdita del posto del lavoro in età avanzata.
Ciò detto, il problema di Boeri è che, come si legge nella sua relazione, per lui “l’obiettivo primario dello Stato sociale è quello di contenere la povertà assoluta”, anche se in ciò fa rientrare anche “l’assicurare chi vive al di sopra della soglia di povertà contro il rischio di forti contrazioni del suo reddito futuro”. Non a caso, Boeri richiama l’esperienza dei paesi nordici e anglosassoni, ma evita di citare il modello di welfare continentale o bismarkiano. Infatti, nella visione anglosassone il welfare pubblico svolge prevalentemente un ruolo di ultima istanza, di garantire uno standard minimo di sopravvivenza, mentre la funzione previdenziale, di garantire al lavoratore il mantenimento del proprio standard di vita dopo il pensionamento (o in caso di disoccupazione) è assegnata al mercato privato, cui si rivolge chi può permetterselo.
La visione continentale, cui il nostro sistema pubblico vorrebbe fare riferimento, intende invece rispondere ad ambedue le esigenze (previdenziale e assistenziale), da cui il minor grado di redistribuzione (il sistema non punta a offrire una prestazione minima uguale per tutti) e le dimensioni, tipicamente più elevate, della spesa. Da questo punto di vista, non sorprende che la relazione di Boeri manchi di valorizzare il ruolo dei trasferimenti pensionistici dell’Inps nel proteggere, più che in altri paesi, gli anziani dagli effetti più deleteri della crisi, né che vi siano assenti i riferimenti costituzionali, in particolare quelli agli articoli 36 (diritto a una retribuzione adeguata) e 38 (diritto a mezzi adeguati a fronteggiare i rischi sociali), pur autorevolmente richiamati dalla Corte Costituzionale, da ultimo, come base della recente sentenza sull’indicizzazione delle pensioni.
L’altro elemento della relazione di Boeri che ha catturato l’attenzione generale è la proposta di riforma del sistema pensionistico ivi abbozzata, articolata in 5 interventi: istituzione di una “rete di protezione sociale dai 55 anni in su”, che vorrebbe prefigurare un qualche reddito minimo garantito per tale fascia di età; ricongiunzione automatica e gratuita di tutti i contributi; ulteriore armonizzazione dei regimi pensionistici; reintroduzione di una flessibilità nell’età di pensionamento, da compensare con penalizzazioni sul valore della pensione; possibilità per i pensionati di continuare a lavorare e contribuire, maturando prestazioni aggiuntive.
In realtà, oltre a quanto si legge nella relazione del presidente, di pubblico non c’è molto di più, e le proposte, per come vi sono formulate, appaiono, forse volutamente, piuttosto generiche e indeterminate nei loro elementi essenziali. Un trait d’union emerge, tuttavia: la riconduzione di tutta la materia pensionistica al principio contributivo (per cui la pensione corrisponde esattamente al valore dei contributi pensionistici pagati, suddiviso per gli anni attesi di pensionamento), l’unico considerato “equo” e degno.
Il fatto però, è che il principio contributivo, che pure ha innegabili pregi, si fonda su uno specifico concetto di equità, quella attuariale-assicurativa, che peraltro non è neanche in grado di realizzare, avendo evidenti caratteristiche regressive, almeno da due punti di vista: in primo luogo, perché i rendimenti che offre sono tanto più bassi quanto minore è il reddito del lavoratore, dato che, dopo 25-30 anni di contribuzione piena, un individuo con un reddito di 1.000 euro al mese arriva a maturare una pensione pari appena all’assegno sociale, cui avrebbe comunque diritto; in secondo luogo, perché non tiene conto che i lavoratori più poveri e meno istruiti vivono tipicamente meno dei ricchi, dunque godranno della pensione per meno anni: secondo uno studio di Mazzaferro, Morciano e Savegnago, a 65 anni un laureato in Italia avrebbe una speranza di vita di quasi 4 anni superiore rispetto a un individuo che non è andato oltre la licenza media.
Bene fa dunque il presidente dell’Inps a segnalare con forza il problema della povertà assoluta, mentre poco convincente è la sua riduzione dei compiti del nostro sistema previdenziale alla sola lotta all’indigenza. Quanto poi alle proposte di riforma del sistema pensionistico, senza entrare nel merito della competenza istituzionale dell’Inps ad avanzare proposte autonome, e in attesa di maggiori dettagli sugli interventi ventilati, nondimeno, l’assurgere della logica contributiva a principio ordinatore unico del sistema previdenziale rischia di costituire una bussola inadeguata e fuorviante.