PHOTO
Lasciato per più di un anno inattivo, senza compiti, isolato, privo di scrivania e di un ufficio, costretto a sostare in piedi lungo il corridoio, poi spostato al cimitero, come sede di lavoro, per lo svolgimento delle pratiche. Ce n’è abbastanza per la Corte di Cassazione per stabilire l’esistenza di un comportamento persecutorio da parte del datore di lavoro, da configurarsi come mobbing e di conseguenza per condannare un Comune calabrese al pagamento del danno biologico, a titolo di risarcimento, in favore di un dipendente della polizia municipale. La sentenza n. 2142 del 27 gennaio è l’ultima, in ordine di tempo, in tema di mobbing, ma non ce ne sono molte altre dello stesso segno.
Difficile è dimostrare l’intento persecutorio del datore di lavoro, base necessaria per il riconoscimento di comportamento mobbizzante, quasi impossibile quando mancano riferimenti legislativi certi, in grado di definirlo. “In Italia, manca una normativa specifica – ha spiegato il giuslavorista Francesco Bronzini, in occasione di un corso di formazione per giornalisti – e quindi le interpretazioni sono varie e a volte generano fraintendimenti. Spesso il mobbing si confonde con il demansionamento e la marginalizzazione, ma non è così. A questi elementi bisogna aggiungerne degli altri, indispensabili per poterlo configurare”. Sette sono i parametri da tenere presenti: primo è, innanzitutto, che la condotta persecutoria si verifichi sul posto di lavoro; che sia frequente e abbia una durata di almeno sei mesi; che si possa dimostrare di aver subito attacchi frontali, isolamento, demansionamento, attacchi alla reputazione, violenza, anche fisica, e minacce, in un crescendo persecutorio che duri nel tempo. In più c’è da aggiungere che l’onere probatorio è totalmente a carico del lavoratore mobbizzato, che potrà ricorrere anche alle testimonianze dei colleghi, i quali però potrebbero essere poco propensi ad agire, com'è facile immaginare, per paura di ritorsioni.
Un percorso davvero complicato, che evidentemente si riflette anche sulle scarse denunce inoltrate all’Inail: qualche centinaio, ogni anno, di cui però solo il 30 per cento viene accolto. “A complicare le cose – spiega Silvino Candeloro, del collegio di presidenza Inca –, si è aggiunto il Jobs Act che, eliminando ogni vincolo ai licenziamenti, incoraggia i datori di lavoro ad usare ogni mezzo per liberarsi di manodopera scomoda, per esempio, scegliendo di ‘risolvere’ rapporti di lavoro più costosi per favorire l’ingresso di persone con contratti più precari”. Una lettura più attenta dell’inquietante aumento dei licenziamenti cosiddetti disciplinari dell’ultimo anno, insieme al ricorso crescente a forme di lavoro precario, potrebbe rivelare un fenomeno molto più esteso di stress lavoro correlato che nel mobbing trova la sua espressione massima. Solo nel 2016, secondo l’Osservatorio sulla precarietà dell’Inps, i licenziamenti disciplinari nelle aziende con più di 15 dipendenti sono aumentati del 31%, passando dai 24.595 del 2015 ai 32.232 dello scorso anno. “Cosa ci sia dietro il termine ‘disciplinare’ è facile intuirlo, ma molto difficile dimostrarlo”, commenta ancora Candeloro.
In questo vuoto normativo, non può stupire come anche la giustizia mostri un orientamento altalenante, muovendosi tra il rispetto dell’articolo 2087 del codice civile, che stabilisce l’obbligo dell'imprenditore di adottare le misure necessarie a “tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore” e una serie di norme specifiche sullo stalking, sulle molestie sessuali, fino a comprendere l’articolo 2103 del codice civile sul demansionamento, su cui le ricadute della nuova normativa sui licenziamenti, introdotta dal Jobs Act, si sentono di più.
Ecco un riassunto delle principali sentenze emesse, ricordate nel volume “Dal mobbing al disagio allo stress correlati al lavoro, a cura di Fernando Cecchini (Nep edizioni), mostra come sia difficile trovare una linearità di orientamento giurisprudenziale:
Cassazione 31 maggio 2011, n. 12048. Getta un sacco di monetine invece dell’assegno sulla scrivania del dipendente: datore di lavoro si salva dal mobbing.
Cassazione 16 settembre 2013. Il mobbing non sussiste se il lavoratore “reagisce” alle vessazioni del capo. La capacità di difesa e di risposta colpo su colpo esclude l’esistenza di un danno psico-fisico.
Cassazione 2 ottobre-21 novembre 2013 n. 26143. È legittimo il licenziamento di chi registra le conversazioni dei colleghi a loro insaputa. La Sezione lavoro ha confermato il licenziamento intimato a un medico di un’azienda ospedaliera “per la grave situazione di sfiducia sospetto e mancanza di collaborazione venutasi a creare all’interno dell’equipe medica di chirurgia plastica”. L’uomo, infatti, era stato accusato di aver registrato brani di conversazione di numerosi colleghi senza che questi ne fossero a conoscenza, violando dunque il loro diritto alla riservatezza, per poi utilizzarli in sede giudiziaria, a supporto di una denuncia per mobbing, che egli stesso aveva presentato nei confronti del primario.
Cassazione 7 ottobre 2015 n. 40320/15. C’è mobbing quando un’azienda esautora dalle proprie funzioni il lavoratore più anziano ed esperto, per preferire invece i suoi colleghi meno preparati e più giovani.
Cassazione 25 novembre 2015, n. 24064. Non è mobbing, inattività per rifiuto nuovi incarichi ritenuti dequalificanti. La Sezione lavoro ha stabilito che non sussiste il demansionamento né tantomeno il mobbing laddove l’inattività di fatto del lavoratore in azienda sia seguita al rifiuto di un nuovo incarico offertogli e l’interessato si limiti a dedurre che dette funzioni siano dequalificanti, senza operare alcun riferimento a elementi di comparazione tali da definire il fattore pregiudizievole alla professionalità acquisita, non potendosi allora detta inoperosità addebitare al datore di lavoro.
Cassazione 3 febbraio 2016 n. 2116. Chiedere straordinari e negare le ferie non è mobbing. La Sezione lavoro torna a pronunciarsi in tema di mobbing delineandone le caratteristiche e i limiti: non può ritenersi condotta vessatoria quella posta in essere dal datore di lavoro che richieda al proprio dipendente di svolgere lavoro straordinario o rifiuti di concedere le ferie.
Cassazione n. 2920/16. Caos organizzativo, stress per lavoratrice: niente mobbing. Respinta definitivamente la richiesta di risarcimento avanzata nei confronti del Ministero della Giustizia, di una dipendente di una “casa circondariale”, lamentatasi per le precarie condizioni lavorative. Evidenti le carenze organizzative e gestionali della struttura, evidenti anche le ripercussioni sulla lavoratrice, ma non si può parlare di mobbing.