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Il rapporto tra imprenditore e lavoratore e la sua disciplina giuridica costituiscono il nodo centrale da cui partono disuguaglianze tra classi sociali, territori, culture. Disuguaglianze che nascono e si modulano in correlazione al margine di libertà di autodeterminazione riconosciuto alle parti. Per la parte più debole (i lavoratori) questa libertà è stata ridotta negli ultimi decenni dalla legislazione, che impone la regola generale della liberalizzazione della durata dei contratti, stabilizzando così il principio della flessibilità della stessa durata del ccnl e della conseguente retribuzione.
Il maggior costo umano del lavoro flessibile prende forma e sostanza nello stato di precarietà che deriva dalla sequenza di contratti formali o di accordi sommersi inevitabilmente cadenzati in giorni, settimane, mesi, durante i quali si lavora senza la certezza di riuscire a ottenere una proroga prima della scadenza del patto in corso, o durante il suo svolgimento o subito dopo (1).
Il ritorno della concezione del lavoro come mero fattore di produzione, rientrante tra i beni aziendali di proprietà dell’impresa, riduce a pura apparenza la democrazia sotto il basilare profilo economico, sancito dagli articoli 1, 4, 36 e 41 della Costituzione: la democrazia economica prevista dalla Costituzione è da intendere come capacità dei lavoratori di incidere – attraverso i propri rappresentanti sindacali e politici – su cosa, dove e quando produrre, sulla durata del contratto, sugli orari, sui tempi di lavoro, sulla retribuzione. L’alternativa alla democrazia economica prevista dalla Costituzione è l’autoritarismo del capitale, che – nel naturale scontro con gli interessi dei lavoratori – ha facile prevalenza, grazie al ricatto occupazionale, favorito dal “riformismo” antisindacale degli ultimi governi della Repubblica.
Non solo. Luciano Gallino indica nella flessibilità del lavoro anche uno specifico pericolo per l’incolumità di donne e uomini: è specialmente nei contratti di breve durata che le imprese non avvertono alcun incentivo a investire sulla sicurezza di dipendenti, essendo essi predestinati, nel volgere di un breve arco di tempo, a lasciare la fabbrica o il cantiere. Gli stessi lavoratori che sono consapevoli di una ridotta durata dell’occupazione non hanno tempo e motivazione per apprendere i codici della sicurezza dell’impresa (2).
A questo declino delle garanzie sostanziali si aggiunge poi la diminuzione del 69% delle vertenze civili e dei procedimenti in materia di licenziamenti e di contratti a termine. Il ministro Poletti si è compiaciuto del complessivo crollo del contenzioso civile, attribuendone il merito alla certezza delle nuove norme, definendolo “un cambiamento di approccio essenziale”. Questa pace sociale è invece causata, oltre che dal timore di ritorsioni, anche dal rinnovato ordinamento processuale, che è stato reso inidoneo ad assicurare il risarcimento del danno pure in caso di licenziamento illegittimo e ha aumentato i costi per l’accesso alla giustizia. E del resto ci vuole una buona dose di coraggio ad affermare che il declino delle controversie dinanzi al giudice civile, in un mercato del lavoro in cui risulta l’irregolarità del 63% delle imprese ispezionate, tanto che l’Europa ci sollecita a che i diritti diventino realtà mediante la garanzia del rispetto della legge, sia frutto della libera scelta dei danneggiati (3).
Il declino della praticabilità e dell’efficacia del ricorso alla giustizia civile pone quindi il problema di garantire una reale tutela giuridica, attraverso la normativa penale, in difesa della vita, della dignità, del patrimonio di chi opera nella galassia dell’attività lavorativa fluida e discontinua, in cui orari, mansioni, retribuzioni, sicurezza, prospettiva pensionistica sono poco definibili e poco prevedibili. Questa tutela si può realizzare con l’applicazione delle norme del codice penale, con particolare riguardo al più grave delitto in danno dei lavoratori (riduzione e mantenimento in servitù), la cui condotta e i cui eventi sono articolatamente scanditi e severamente puniti dall’articolo 600.
Lo stato di necessità – il cui approfittamento costituisce una delle condotte di questo delitto – non è oggi solo l’effetto dell’endemico squilibrio nei rapporti di forza tra capitale e lavoro, ma è anche il risultato delle suindicate norme introdotte negli ultimi decenni dal Parlamento sulla modifica del potere negoziale delle parti e sulla crescita dello sfruttamento da parte dell’imprenditore.
L’attualità dell’intervento punitivo dello Stato è causata dalla crisi economica e dal “riformismo” antisindacale adottato dall’alleanza tra potere politico e potere economico: i lavoratori si trovano nell’eccezionale condizione di vulnerabilità, definita dalla direttiva 2011/36/Ue del Parlamento europeo, all’articolo 2, come “una situazione in cui la persona (…) non ha altra scelta effettiva e accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”.
In questa ipotesi tocca al giudice penale verificare la sussistenza del delitto della riduzione o mantenimento in servitù, ex articolo 600 del codice penale, che ha a oggetto la lesione della facoltà del lavoratore di manifestare la propria libertà di volere e di agire nella determinazione della disciplina del rapporto, nonché l’eventuale “sproporzione tra la prestazione della vittima e quella del soggetto attivo che deriva dallo stato di bisogno della prima di cui il secondo approfitti per trarne vantaggio” (4).
Il legislatore, con l’articolo 603bis del codice penale, ha inoltre riconosciuto ufficiale veste normativa a indici di sfruttamento, utilizzabili dal giudice per accertare il lavoro servile, tipizzati in base a uno o più comportamenti del datore di lavoro (reiterato pagamento delle prestazioni con retribuzione palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali; reiterata violazione della normativa relativa all’orario concordato, al riposo, alle ferie; ambiente di lavoro in violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene, sino a esporre, in relazione alle prestazioni, “i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo” (5); sottoposizione del dipendente a condizioni di lavoro e a metodi di sorveglianza degradanti).
Insomma, in base alla legge dello Stato italiano (articoli 600 e 603 bis del codice penale), l’imprenditore che – approfittando della situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica, dello stato di necessità – sottopone il lavoratore alla soggezione continuativa dello sfruttamento, costringendolo a prestazioni sottopagate, degradanti, pericolose, commette il delitto di “riduzione in servitù”, che è punibile con la reclusione da 8 a 20 anni e con altre pesanti sanzioni accessorie.
Emerge così la valenza criminogena del Jobs Act, che legittima, autorizza, istigata la parte più forte a imporre regole e protocolli di sfruttamento illegale, in conformità non ai sommi principi dell’ordinamento giuridico, ma alla contingente strategia finanziaria e produttiva, programmata dai vertici economici e politici.
(1) M. Fana, “Non è lavoro, è sfruttamento”, Edizioni Laterza, 2017, p.146. Sul tema della precarietà, come anticamera della violazione della libertà di autodeterminazione dei lavoratori, si richiama l’intero capitolo “La flessibilità è di destra”, p. 134 ss
(2) L. Gallino, “Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario”, Edizioni Laterza, 2014, p. 12
(3) R. Riverso, “La sottile linea tra legalità e sfruttamento nel lavoro”, nella rivista on line Questione Giustizia, 28 aprile 2017
(4) Cassazione, sez. 3, 20/12/2004, n. 3368 del Rv 231113
(5) Questa ipotesi di sfruttamento aggravato, ex art. 603bis, co. 3 n. 3, si inquadra comunemente in una strategia imprenditoriale di riduzione degli investimenti per la sicurezza dei lavoratori, attuata specialmente in momenti di crisi