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“È fondamentale reintrodurre un meccanismo di flessibilità in uscita in Italia, come previsto nella nostra piattaforma sindacale unitaria, con un’età di accesso al pensionamento a partire dai 62 anni, e occorre superare strutturalmente l’impianto della legge Monti-Fornero, introducendo i necessari elementi di sostenibilità, in particolare nei confronti dei giovani, delle donne, di chi svolge lavori manuali e gravosi, e dei lavoratori precoci”. È quanto dichiarato dal segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli nel corso dell’iniziativa tenutasi oggi (18 aprile) a Roma, in occasione della quale è stato presentato lo studio di Cgil e Fondazione Di Vittorio "I sistemi previdenziali in Europa".
La ricerca (leggi il pdf) compara i diversi sistemi dei Paesi europei, e da essa emerge che l’Italia è quello in cui l’età per la pensione di vecchiaia è più alta, 67 anni sia per gli uomini che per le donne a partire dal 2019. Un limite molto elevato: in Germania si raggiungeranno i 67 anni solo nel 2029, mentre in Spagna pochi anni prima, nel 2027.
Non solo: il meccanismo di adeguamento del requisito pensionistico vigente nel nostro Paese, con verifiche biennali, risulta essere il più rigido in Europa e, secondo le stime previste dalla Ragioneria dello Stato, raggiungeremo i 69 anni e 5 mesi nel 2050. Nessun altro Paese ha un’età così elevata nelle proprie previsioni.
Secondo il responsabile dell’Ufficio previdenza pubblica della Cgil nazionale, Ezio Cigna, “il sistema previdenziale italiano risulta essere più penalizzante rispetto agli altri perché, oltre a impattare sul diritto, modifica con cadenza biennale i coefficienti di trasformazione, necessari per il calcolo della pensione nel sistema contributivo. Quindi non solo uno spostamento del traguardo pensionistico per tutti, ma anche una pensione più bassa”.
“Nell’elaborazione di Cgil e Fondazione Di Vittorio – rileva Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio – si evince che sono molti i fattori che hanno generato scelte e differenze tra i diversi sistemi. Tra questi, il rallentamento della crescita economica delle retribuzioni, un aumento dei tassi di disoccupazione e una modifica profonda alla struttura demografica attuale e previsionale”.
Differenze che, secondo quanto emerge dallo studio, si riscontrano anche per quanto riguarda la prevalenza del primo o del secondo pilastro. In Italia e Spagna le pensioni dipendono quasi totalmente dal primo con una copertura della previdenza pubblica, mentre la previdenza complementare è ancora poco sviluppata (il nostro dato di adesioni è infatti inferiore al 30%). In altri Paesi, come quelli anglosassoni a modello “liberale”, prevale il secondo pilastro, incentrato sulle pensioni di categoria o complementari. Quello di base pubblico è volto al sostentamento e alla prevenzione della povertà.
Per la Cgil c'è quindi la necessità di promuovere la previdenza complementare, a partire da quei settori dove oggi è marginale, ma solo come strumento a supporto e a sostegno della previdenza pubblica. Un’altra differenza emersa nel corso dell’iniziativa è che alcuni paesi, come Francia, Germania e Inghilterra, valorizzano ai fini previdenziali periodi come la formazione e la cura-educazione dei figli. Per quest’ultima, nel caso inglese si raggiungono maggiorazioni sino a dieci anni.
Nello studio vengono comparati poi temi come il tasso di sostituzione e l’aliquota di finanziamento, che, anche in questo caso, vedono il nostro Paese penalizzato rispetto alla gran parte dell'Europa. Inoltre, viene evidenziato che il rapporto tra spesa pensionistica e Pil, dato che l’Ue osserva con attenzione nei diversi Stati, nel nostro Paese risulta essere viziato dalla composizione della spesa stessa, che ha all’interno molti fattori che altrove pesano meno, come il fisco, o che non vengono conteggiati ai fini previdenziali, come il tfr.