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L’analisi congiunta dei diversi indicatori economici e sociali evidenzia come le dinamiche positive incontrate nel corso della crisi siano principalmente dipendenti dall’export, confermando la vocazione export oriented del sistema industriale, e, comunque, come queste non siano state capaci di tradursi in un incremento strutturato dell’occupazione. La quantità di lavoro effettivamente svolto non sembra rigenerarsi dopo la caduta del 2011 e i movimenti della domanda di lavoro, soprattutto nel corso del 2014, indicano un aumento della discontinuità e frammentarietà contrattuale.
Pur mantenendo una tendenza alla crescita, le esportazioni crescono meno rapidamente di altri territori dell’Emilia-Romagna. Considerando la maggiore rilevanza della manifattura nel tessuto produttivo reggiano, il minor tasso di crescita dell’export segnala alcuni elementi di criticità in termini di capacità pervasiva dei prodotti reggiani rispetto a quelli di altre province manifatturiere regionali.
Il mercato del lavoro: le attese tradite di ripresa occupazionale
A differenza della regione Emilia-Romagna, il numero di occupati a Reggio Emilia nel 2013 mostra segnali di stabilità. La tenuta dell’occupazione, però, non resiste alla persistenza della crisi e nel 2014 il numero di occupati diminuisce anche a Reggio Emilia: se in Emilia-Romagna la flessione occupazionale era già iniziata nel 2012 e proseguita nel 2013, a Reggio Emilia si rileva statisticamente nel 2014, a fronte di una variazione positiva in Emilia-Romagna.
Nelle continue fasi ascendenti e discendenti della dimensione occupazionale a cambiare, però, è la composizione della forza lavoro: aumenta la quota di lavoratori occupati nel terziario e diminuisce quella occupata nell’industria. Lo stesso processo si sta verificando anche in tutto il territorio regionale ma ad una velocità più moderata. È ormai avviata una fase di terziarizzazione dell’occupazione, con i risvolti in termini reddituali, di tenuta occupazionale e sociale, con cui anche il soggetto sindacale è chiamato a confrontarsi.
Aumentano gli avviamenti al lavoro ma diminuiscono gli occupati
Il 2014 vive un disallineamento tra l'andamento degli avviamenti al lavoro e il numero degli occupati. Se gli occupati diminuiscono dello 0,9%, il numero di avviamenti aumenta su base annua di oltre il 4%. Lo scostamento tra numero di occupati e numero di avviamenti al lavoro suggerisce un aumento della discontinuità lavorativa. È probabile, da una parte, che l’effetto della prima riforma Poletti sul lavoro a tempo determinato abbia spinto per un incremento dell’utilizzo di tale forma contrattuale (complessivamente il tempo determinato passa dall’essere il 41,8% nel 2008 al 52,8% nel primo semestre 2014 sul totale del volume degli avviamenti). Dall’altro lato, tuttavia, è possibile che l’attesa per la decontribuzione annunciata nella legge di stabilità abbia indotto le imprese a rimandare al 2015 eventuali assunzioni a tempo indeterminato prorogando contratti temporanei.
Misure alternative del mercato del lavoro
A un aumento del numero degli avviamenti al lavoro del 2014 non corrisponde solo una contrazione dell’occupazione ma anche un aumento del tasso di disoccupazione, cresciuto dal 5,9% al 6,6% dal 2013 al 2014. Ma il tasso di disoccupazione non è capace da solo di spiegare le dinamiche del mercato del lavoro in quanto non tiene conto di tutte quelle forze di lavoro sottoutilizzate, ovvero che non sono contate come disoccupati ma in realtà non lavorano ma vorrebbero lavorare. Come Ires Emilia-Romagna abbiamo provato a tenere conto di tutte queste figure che rappresentano una quota di forza lavoro disponibile ma non utilizzata: il tasso di sottoutilizzo così calcolato sarebbe pari a 8,7% nel 2013 e presumibilmente al 9,4% nel 2014, ovvero livelli ben superiori al tasso di disoccupazione tradizionale.
Nel corso della crisi, inoltre, si è aperta una distanza tra la quantità di lavoro effettiva (linea blu -ULA) e il numero di occupati (linea rossa – occupati Istat). Si viene quindi a creare una forbice tra occupati reali (la linea blu) e gli occupati teorici (la linea rossa): tale differenza ammonta nel 2014 a 10 mila occupati. Senza alcun intervento di riduzione dell’orario di lavoro (ammortizzatori sociali, contratti di solidarietà e part time), i 10 mila occupati reali in più sarebbero disoccupati facendo schizzare il tasso di disoccupazione tradizionale ad oltre l’11%.
Figura 1 - Confronto tra occupati Istat e occupati teorici costruiti sulla quantità di lavoro effettiva
(valori in migliaia) Fonte: nostre elaborazioni su fonti Istat, Unioncamere e Prometeia.
Famiglie sempre più povere
La cristallizzazione dei differenziali retributivi e le dinamiche del mercato del lavoro (terziarizzazione a basso contenuto professionale e frammentarietà contrattuale, in primis) hanno prodotto un aumento della quota di famiglie in povertà relativa. A Reggio Emilia si riscontra il tasso di crescita più alto in un confronto con le altre province dell’Emilia-Romagna e con tutta l’area del Nord- Est passando dal 2,8% delle famiglie al 6,1% nel 2012, ovvero un tasso di povertà secondo solo a quello registrato a Rimini (6,5%). In termini assoluti, le famiglie in povertà relativa crescono da poco più di 6 mila nel 2009 a quasi 14 mila nel 2012, con un incremento di circa il 130% in soli quattro anni.
Piano del lavoro e fabbisogno occupazionale
Nel corso dell’ultimo anno, l’Ires Emilia-Romagna ha monitorato, raccolto e valutato 16 diversi progetti di investimento che attraverseranno il territorio reggiano tra il 2014 ed il 2018 e che, in prospettiva, produrranno un effetto occupazionale nei prossimi 5 anni. Il progetto fa parte di una iniziativa regionale di più ampio respiro orientata a fornire le basi informative e conoscitive per costruire il Piano del Lavoro. Questi progetti analizzati sono in grado di generare 4.535 posti di lavoro, di cui la larga maggioranza (il 76%) nell’industria, particolarmente quella manifatturiera, e il 24% nei servizi.
Un numero insufficiente a rispondere al fabbisogno occupazionale del territorio, calcolato come il numero di occupati in più per riuscire a raggiungere il tasso di occupazione del 2007, ovvero del periodo pre-crisi. Secondo le nostre stime, la provincia di Reggio Emilia avrebbe maturato nel corso della crisi un fabbisogno occupazionale pari a oltre 18 mila unità. Gli investimenti analizzati riuscirebbero a rispondere a solo il 25% del fabbisogno occupazionale, facendo emergere l’urgenza di un ulteriore stimolo agli investimenti per rilanciare l’occupazione sul territorio. Lo stimolo è ancora più impellente se si considera che non necessariamente un posto di lavoro in più coincide con un occupato in più, in quanto esiste un quota di occupati sottoutilizzata che sarebbe riattivata da una eventuale ripresa della quantità di lavoro che gli investimenti genererebbero.
Inoltre, gli investimenti pubblici-privati previsti presentano in sé alcuni elementi di criticità: • il modello di investimenti prevede un incremento occupazionale a forte caratterizzazione manifatturiera e poco orientato a costruire una sinergia con il mondo del terziario, soprattutto con il terziario avanzato; • gli investimenti evidenziano una difficoltà del sistema di governo del territorio ad attrarre capitali stranieri in ambito produttivo.
Demografia
L’incertezza degli indicatori economici e sociali si ripercuote anche nella dimensione demografica: il 2013 segna per la prima volta una flessione della dimensione demografica (-0,2% tendenziale, -1.000 circa residenti totali) denunciando una perdita di attrattività soprattutto per la popolazione straniera (-2,5%, -2.000 circa residenti stranieri). A diminuire tra gli stranieri, inoltre, è principalmente la popolazione attiva mentre crescono le fasce di età più avanzate: si registra dunque una accelerazione di un processo di cambiamento dello stereotipo dell’immigrato non più solo giovane e attivo ma anche adulto e inattivo con evidenti ripercussioni in termini di politiche di integrazione e di welfare.
* ricercatore Ires Emilia-Romagna