Nel recente Documento di economia e finanza il governo ha pubblicato le sue stime del Pil, che per gli anni 2015-2016 prevedono tassi di crescita dello 0,7% e dell’1,3% rispettivamente, nonché i rispettivi valori nominali, pari a 1.638,9 e 1.687,7 miliardi nel 2015 e 2016 (1.616,0 nel 2014) (Ministero dell’economia e delle finanze, Def 2015). Tali valori del Pil sono stati calcolati in base ai nuovi schemi di contabilità nazionale Sec 2010 adottati dal 2014 dall’Istat, che si differenziano da quelli adottati in precedenza, tra l’altro, per l’esplicita inclusione nel Pil anche delle attività illegali legate a prostituzione, contrabbando e droga.

La giustificazione dell’inclusione di tali attività illegali nel calcolo del Pil discende dalla definizione del sistema dei conti nazionali come un sistema esaustivo di transazioni economiche. Per transazioni economiche si intendono tutte le transazioni (monetarie) che avvengono su base volontaria, anche se concernono lo scambio di servizi o beni di natura illegale. La natura volontaria delle scelte degli utilizzatori finali di usufruire di servizi della prostituzione, o di acquistare merci di contrabbando, o droga, alla stregua di un’altra qualsiasi libera decisione di acquisto come, ad esempio, di una lavatrice, conferisce, attraverso la formazione dei prezzi di mercato, un valore economico a queste transazioni che devono così essere incluse nel calcolo del Pil per soddisfare il criterio di esaustività.

L’applicazione di tale criterio, secondo Eurostat, ha anche “l’obiettivo di accrescere la comparabilità internazionale delle stime consentendo tra l’altro l’utilizzo del reddito nazionale lordo ai fini del calcolo delle risorse proprie Ue”. In realtà, l’esplicita inclusione di attività illegali nel calcolo del Pil può ridurne la comparabilità tra paesi caratterizzati da sistemi giuridici diversi. Se dal lato del consumo il libero acquisto di tali beni e servizi viene trattato al pari di altre transazioni commerciali riguardanti beni e servizi legalmente disponibili sul mercato, dal lato dell’offerta occorre tener conto delle strutture produttive che, a monte, consentono ai consumatori finali di usufruire o meno di servizi della prostituzione, o di acquistare merci di contrabbando o di droga. In questo caso, non vi è dubbio che si tratti di vere e proprie attività criminali, penalmente identificate da precise fattispecie e debitamente sanzionate.

Se i comportamenti dal lato della domanda, caratterizzati da libera scelta, possono essere definiti semplicemente “illegali”, non vi è dubbio che, dal lato dell’offerta, l’insieme delle attività che assicurano la disponibilità finale di tali servizi e beni si configuri come criminale e che la loro vendita al consumo ne costituisca la fonte di profitto e finanziamento. Al riguardo nel Def 2014 si afferma che “l’inclusione di attività illegali… non corrisponde a inserire l’economia criminale nella misurazione del Pil” (vedi Def 2014, Nota di aggiornamento, p. 25).

D’altro canto, lo Stato opera attivamente per contrastare le attività criminali che consentono la produzione dei servizi della prostituzione, o la disponibilità di merci di contrabbando, o di droga. Parlamento e governo destinano ogni anno significative risorse finanziarie, umane e materiali per contrastare quelle attività criminali che assicurano la possibilità di consumare tali servizi e beni. In altre parole, per come viene calcolato il Pil secondo il nuovo schema Sec 2010, è evidente che lo Stato finanzia politiche pubbliche che hanno come obiettivo la riduzione del Pil.

Infatti, tanto più è efficace l’azione di contrasto delle attività criminali, tanto più sarà ridotto il loro valore aggiunto e tanto minore risulterà il loro contributo al Pil. Per conseguire un buon tasso di crescita, occorrerebbe dunque sperare anche nella sostanziale inefficacia delle attività di contrasto alla criminalità. L’inserimento delle attività illegali/criminali nel calcolo del Pil fa sorgere dunque un’insanabile contraddizione tra le politiche pubbliche adottate dal Parlamento e dal governo, alcune indirizzate alla crescita del Pil, altre alla sua riduzione, per cui nel Pil verrà contabilizzato il loro effetto netto.

Questa contraddizione emerge perché Eurostat ha voluto, nel rispetto del criterio di esaustività, rendere omogenee, ai fini della misurazione, transazioni che nei diversi paesi possono essere giuridicamente regolate in modo diverso e, soprattutto, perché di solito la loro offerta (filiere produttive) si fonda su vere e proprie attività criminali. L’Istat ha calcolato che tali attività hanno prodotto, nel 2011, un valore aggiunto di 15,5 milioni, pari allo 0,9 % del Pil. Nell’attuale fase congiunturale è dunque evidente che tale componente può risultare determinante per far sì che il Pil riprenda a crescere dopo anni di recessione.

Quando infatti i tassi di crescita del Pil sono sostenuti si potrà anche trascurare il contributo positivo di tali attività, mentre nel caso di condizioni meno favorevoli il rischio è che il successo delle politiche per la crescita dipenda in modo cruciale dal contributo che possono dare le attività criminali. Per evitare una simile contraddizione l’Istat, superando le difficoltà che si accompagnano a queste stime, dovrebbe rendere disponibili due serie di dati relativi al Pil, una al netto e l’altra al lordo delle attività illegali/criminali. A questo scopo occorrerebbe costruire un conto satellite per queste ultime attività, esplicitando le loro interrelazioni con le attività legali.

Governo e Parlamento potrebbero basarsi, per la definizione delle politiche pubbliche, sulla serie al netto delle attività illegali/criminali, superando in tal modo la contraddizione tra le politiche di contrasto alla criminalità e quelle a favore della crescita economica. Inoltre, una più puntuale conoscenza dei fenomeni criminali, anche sotto il profilo economico-quantitativo, consentirebbe un più corretto impiego del Pil per la definizione delle politiche economiche. Allo stesso tempo, poiché i vincoli europei di finanza pubblica sono uguali per tutti, sarebbero ancora possibili, in sede Eurostat o Commissione europea, confronti internazionali basati sulle stime del Pil comprensive anche delle attività illegali/criminali.

In questo caso rimarrebbe comunque insoluto il problema della relazione tra esaustività delle stime dei conti nazionali e loro comparabilità in presenza di differenti sistemi giuridici e la conseguenza sarebbe che, con l’adozione del criterio di esaustività, il calcolo, ad esempio, delle risorse proprie dell’Ue rischierebbe di trovarsi al centro di un continuo contenzioso. Comunque, nessuna soluzione potrà conciliare perfettamente esaustività e comparabilità e perciò appare preferibile, anche in sede comunitaria, impiegare per le valutazioni di finanza pubblica soltanto le stime che escludono, secondo quanto previsto dai singoli sistemi giuridici, le attività illegali/criminali.

*Economista, esperto di finanza pubblica e valutazione della performance