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Margrethe Vestager, commissaria europea responsabile per la Concorrenza, ha annunciato il 30 agosto la conclusione del procedimento aperto l’11 giugno 2014 sul regime fiscale applicato dall’Irlanda ad Apple (procedimento che ha indagato anche su Starbucks/Olanda e su Fiat Finance and Trading/Lussemburgo) a partire dal 2003 e fino al 2013: la Commissione ha ravvisato gli estremi dell’aiuto di Stato, condannando l’azienda di Cupertino a pagare i 13 miliardi di euro di imposte dovute.
Ma cosa è successo in questi dieci anni? In cosa è consistito questo aiuto di Stato? Per comprenderlo dobbiamo innanzitutto capire chi sono gli attori in campo. A cominciare da una precisazione: l’azienda che ha beneficiato della tassazione indebitamente bassa non è quella con sede a Cupertino, nel cuore della californiana Silicon Valley (come anche da noi – impropriamente – riportato), ma è la Apple Sales International (e in quota minore, ma con le medesime modalità, la Apple Operation Europe), con sede a Cork, nel Sud dell’Irlanda.
Questa impresa è una società di diritto irlandese detenuta al 100% dal gruppo Apple e sotto il controllo della madre americana Apple Inc., con la quale ha un accordo di “ripartizione dei costi”, ovvero versa alla Apple Inc. una quota per la ricerca e sviluppo. Negli ultimi anni i costi per ricerca e sviluppo pagati dalla Apple Sales International hanno finanziato per oltre la metà i costi complessivi dell’intero gruppo in ricerca e sviluppo. A questo proposito, giova ricordare che i costi a tal fine sostenuti, anche infragruppo, vengono dedotti dall'imponibile. Ma non è per questo che la Commissione ha ravvisato l’aiuto di Stato.
I grandi contribuenti, specie internazionali, sono soliti chiedere dei “chiarimenti fiscali” allo Stato in cui hanno la sede legale, i cosiddetti ruling. In un ruling, l’azienda dichiara in che modo svolgerà la sua attività e “contabilizzerà” le voci del bilancio, e si informa sulle modalità in cui queste saranno tassate. L’istituto del ruling è positivo sia per l’azienda che per l’erario. Permette infatti al contribuente una pianificazione fiscale, evita di disperdere risorse in lunghi contenziosi inevitabili quando l’articolazione della produzione è molto complessa (come lo è per una multinazionale) e permette all’amministrazione un’entrata chiara, stabilita attraverso un parere espresso in condizioni di non urgenza.
La Commissione ha rilevato che le imposte pagate dalla Apple Sales International si sono risolte, nel 2011 al solo 0,05% dei profitti complessivi. Nel 2014 l’aliquota reale è scesa allo 0,005%. Come è riuscita la Apple Sales International a pagare imposte così basse? La corporate tax (l’equivalente dell’Ires italiana) in Irlanda è pari al 12,5%. E, in effetti, la società ha pagato il 12,5% sui suoi utili. Il ruling dell’erario irlandese non ha previsto un’aliquota inferiore a quella prevista per le altre aziende che operano in Irlanda. Del resto sarebbe stato troppo facile, in quel caso, contestare un trattamento ad impresam.
Il problema è sorto nella quantificazione dei profitti. I profitti dei prodotti venduti in tutta Europa venivano accentrati alla Apple Sales International, anziché alla rete di distribuzione diffusa in tutta Europa. In pratica, il sistema era organizzato in maniera tale che i clienti contrattualmente acquistassero i prodotti non dai negozi in cui li compravano materialmente, ma – per l’appunto – direttamente dalla Apple Sales International. In questo modo, le vendite, e gli utili, erano registrati tutti in Irlanda. Ma, di nuovo, non è questo che ha fatto rilevare l’infrazione per una tassazione indebitamente bassa a una sola azienda.
Il problema è che la maggior parte degli utili fatti dalla società irlandese non era a questa imputata, in quanto venivano invece assegnati a una “sede centrale” di Apple Sales International. Tale sede, come emerso dalle indagini della Commissione, non era ubicata in nessun Paese, non aveva dipendenti, né uffici, e aveva come attività solo quella di organizzare le riunioni del consiglio d’amministrazione.
Per capire le proporzioni, e per capire come si arriva all’aliquota reale spaventosa dello 0,005%, si consideri che nel 2011, dei 22 miliardi di dollari di utili di Apple Sales International (cifra comunicata in audizione pubblica al Senato americano nel 2011), solo 50 milioni di euro sono stati imputati alla sede irlandese, e su questi sono stati pagati, in tutto, 10 milioni di imposte. Tali 50 milioni sono rimasti invariati negli anni successivi, nonostante l’incremento degli utili.
La Commissione ha insomma ritenuto la “sede centrale”, senza uffici e senza dipendenti, assolutamente non in grado di mantenere una rete di produzione e di distribuzione tale da svolgere il ruolo che veniva invece svolto dalla capacità operativa della Apple Sales International. Il ruling irlandese, quindi, ha peccato laddove ha permesso a un’impresa di distribuire internamente gli utili in maniera artificiosa, senza alcun fine che non fosse quello di pagare meno tasse.
È vero, sì, che Apple Sales International ha pianificato la sua attività dopo avere avuto l’ok dallo Stato in cui risiedeva, ma le proporzioni gigantesche di questa elusione sono tali da indebolire anche il principio della certezza del diritto fiscale. Citando l’esempio fatto da Sebastien Dullien, professore dell’Università di Berlino, è un po’ come se una persona comprasse in un emporio di Bangkok 10 iPhone per la sua famiglia, pagandoli in tutto 50 euro, avendone ricevuto ogni garanzia anche scritta dal venditore, e che poi si stupisse che alla dogana gli fossero requisiti come merce contraffatta.
L’Irlanda si è detta contraria a incassare i 13 miliardi dovuti (arretrati 2003-2013, pari a un terzo circa delle entrate totali del Paese nel 2012). Del resto, in un contesto in cui gli Stati della stessa Unione si fanno una selvaggia concorrenza fiscale, questa riluttanza a incassare non è un’esperienza nuova. È però interessante notare come le imprese multinazionali non si accontentino più della corporate tax più bassa d'Europa. In questa folle corsa al ribasso delle imposte sui profitti delle imprese non è sufficiente neanche il misero 12,5% che garantisce l’Irlanda. Per “attrarre investimenti” le imprese ormai chiedono lo 0,005%.
Aggiungiamo in chiusura che la stessa Commissione sostiene che i 13 miliardi di imposte dovute all’Irlanda potrebbero diminuire se altri Paesi dell’Unione, a seguito degli elementi emersi dall’istruttoria, contestassero l’accentramento dei profitti presso la sola sede irlandese. In parole povere, se l’Italia, la Francia o la Germania sostenessero che i profitti derivanti dai prodotti con la mela venduti in punti vendita ubicati nel loro territorio siano da tassare secondo le norme interne. Insomma, tra ricorsi di Apple, dell’Irlanda e, in attesa delle reazione delle agenzie fiscali, degli altri Paesi europei, la questione appare ancora lontana da una sua risoluzione definitiva.
Cristian Perniciano, dipartimento politiche economiche, fisco e finanza pubblica Cgil nazionale